Geni e cultura per domesticare la nostra natura

Biologia - Per Robert Sapolsky i geni regolano le risposte del nostro corpo all’ambiente
/ 07.09.2020
di Lorenzo De Carli

C’è un momento della vita, a partire dal quale ci diventa estranea la musica ascoltata da chi ha vent’anni. Strano, perché ci sembrava di essere ben aggiornati, in fatto di musica; e avevamo una chiara consapevolezza di quanto radicalmente diverso fosse il nostro gusto musicale rispetto a quello delle persone più vecchie di noi. Più o meno, è lo stesso momento della vita, in cui anche il piercing alla lingua ci sembra una pratica priva di senso e anche un po’ ripugnante; eppure non ci consideriamo affatto incapaci di apprezzare le novità, se – con un po’ di coraggio – recentemente abbiamo anche cominciato ad gradire persino il sushi, e quindi non può essere da vecchi provare il piacere di riascoltare Gaber, o Marley, o Springsteen, i quali – almeno per ora – non sono gli autori più gettonati nelle case di riposo.

Forse perché ogni ricercatore o docente universitario ha l’obbligo di produrre di tanto in tanto articoli per riviste scientifiche, assieme con i suoi studenti, Robert M. Sapolsky – professore di Biologia e di Neurologia alla Stanford University, famoso per aver scritto Perché alle zebre non viene l’ulcera? (vedi «Azione 13» del 2019)– si è chiesto se, per caso, davvero nella nostra vita non ci siano delle stagioni per questa o quest’altra passione, per questa o quest’altra attività; cominciando a trovare una risposta alla domanda: «Quando si formano i nostri gusti musicali? E quando cominciamo ad essere aperti alla maggior parte della musica nuova?»

L’ipotesi di partenza – constatando che, dopotutto, è abbastanza facile intuire l’età delle persone in base ai motivetti che canticchiano più frequentemente – è che vi sia una finestra temporale, nella quale il nostro cervello è più ricettivo a certi stimoli, diventando successivamente molto meno permeabile alle novità. Su questo argomento, in un volume che raccoglie i risultati delle ultime ricerche di Sapolsky intitolato L’uomo bestiale. Come l’ambiente e i geni costruiscono la nostra identità, leggiamo che: «in base ai nostri risultati la maggior parte della gente ha vent’anni quando ascolta la musica pop che sceglie per il resto della vita» e che dopo i trentacinque anni la probabilità di apprezzare nuova musica pop si riduce al 5%: «la finestra è chiusa».

Chissà se la ricerca condotta negli Stati Uniti sia significativa anche per l’Europa; Sapolsky e i suoi hanno fatto anche indagini sul sushi, osservando che: «il cliente medio non asiatico del Midwest, quando il sushi era entrato per la prima volta in città, aveva un’età massima di ventotto anni mentre più del 95% di coloro che all’epoca avevano trentacinque anni non avrebbero mai toccato quella roba. Un’altra finestra chiusa». Per il piercing alla lingua, ci dicono Sapolsky e i suoi ricercatori, la finestra si chiude molto prima: a diciott’anni; sicché se avete figli con più di vent’anni dovreste essere già fuori pericolo.

Di primo acchito, di fronte a queste osservazioni, il neuroscienziato direbbe che, dopotutto, i risultati sono prevedibili: i cervelli dei giovani sono molto più plastici di quelli delle persone in là con gli anni; non solo più ricettivi alle novità ma anche spiccatamente orientati a cercarle, se non altro per godere degli effetti provocati da neurotrasmettitori come la dopamina o l’ossitocina. Tuttavia ci sono tante ricerche che dimostrano come nuovi e stimolanti ambienti sono in grado di indurre neuroni adulti a formare nuove connessioni e che, dunque, non c’è una traiettoria definita a priori dai geni, ma una interazione ininterrotta con l’ambiente, e che variando questo variano anche le espressioni di quelli.

Il filo conduttore delle ricerche documentate in L’uomo bestiale è il rapporto tra geni e ambiente. L’obiettivo che si propone Sapolsky è quello di criticare l’idea secondo la quale i geni – magari codificando in maniera specifica per questa o quest’altra proteina – determinerebbero la nostra vita, eseguendo per così dire un programma prestabilito. Per Sapolsky i geni non determinano alcunché: «i geni regolano il modo di rispondere all’ambiente». È quindi privo di senso parlare di geni e di ambiente, tenendoli separati: occorre prendere in considerazione solo la loro interazione.

Quanto sbagliato sia prescindere dall’interazione geni/ambiente lo dimostra l’inconsistenza di affermazioni che attribuiscono a questo o a quel gene un determinato comportamento. Il motivo è semplice: una stringa di DNA non produce nessun comportamento, nessuna emozione, nessun pensiero: produce solo una specifica proteina. La classe delle proteine è ampia e comprende anche ormoni e neurotrasmettitori, ragion per cui, in effetti, i geni sono coinvolti in un’estrema varietà di processi biochimici: «ma il punto chiave è che è estremamente raro che un comportamento sia causato da cose come gli ormoni e i neurotrasmettitori: piuttosto queste sostanze producono la tendenza a rispondere all’ambiente in un determinato modo».

Il problema di noi esseri umani è che, «ambiente», sono anche i pensieri che abbiamo in testa, la narrazione che ci facciamo della nostra vita e di quella degli altri – spesso causando problemi ignoti agli altri primati. Prendiamo l’ansia, per esempio: si manifesta quando un organismo avverte pericolo e ostilità nell’ambiente, induce uno stato di vigilanza e attiva le strategie utili per far fronte al pericolo. Cessato il pericolo, cessa anche l’ansia. Peccato che, evolvendo noi la capacità di prefigurare pericoli non ancora presenti, scivoliamo spesso lungo la china della moltiplicazione di questi pericoli, i quali continuano ad indurre una risposta ansiosa nei nostri corpi: non siamo «geneticamente ansiosi»; si tratta di prendere consapevolezza di questo meccanismo. Il problema è che non è così semplice perché, se è pur vero che abbiamo una mente che ci permette di fare questi ragionamenti, il corpo reagisce e prende decisioni molto prima di noi.

Su questo tema Sapolsky è d’accordo con Damasio: l’intensità delle emozioni è modulata dal tipo di eventi anatomici che si verificano nel corpo in un dato momento: «Il sistema limbico si attiva e cambia marcia istantaneamente». Ne è un buon esempio l’aggressività che talvolta osserviamo tra gli automobilisti: se fatica a smorzarsi è perché «le risposte corporee continuano il loro moto sbuffante da treno merci».

Le ricerche di Sapolsky sintetizzate in L’uomo bestiale sono appassionanti perché ci spingono ad osservare in che modo le nostre risposte emotive sono vincolate a reazioni all’ambiente che abbiamo sviluppato lungo tutta la nostra storia evolutiva: davvero troppo lunga per non permanere solidamente in noi, facendoci spesso comportare come bestie.