Poche ore dopo la morte del Pibe de Oro, sui social media appaiono anche gli strali di chi si scandalizza per la pletora di celebrazioni che ne ripercorrono le gesta. «Non vi vergognate? Stiamo vivendo periodi bui, in cui tanta brava gente se ne va in perfetta solitudine, e voi vi dannate nel santificare un calciatore che tutto può essere, fuorché un buon esempio per i giovani». Io non mi vergogno. E tanto meno le varie testate che gli hanno dedicato pagine e ore.
La «Gazzetta dello sport», ad esempio, il 26 novembre apre con 23 pagine su di lui, prima di affrontare la sconfitta casalinga dell’Inter contro il Real Madrid, e il successo dell’Atalanta a Liverpool. Ci sarà pure una ragione! Ce ne sono tante. Ma quella primordiale è che Diego Armando Maradona è stato un uomo con un’anima. Un uomo vicino alla sua gente. Un calciatore che, con le sue magie, ha contribuito a dare fierezza e dignità a una Napoli vittima delle sue fragilità e degli altrui pregiudizi. Un cittadino che ha fatto delle scelte di campo.
Ci si può tatuare l’effigie del Che anche solo perché fa «chic». Ma, se non si è convinti, non si rischia di compromettere la propria immagine pubblica, e le relative sponsorizzazioni, schierandosi dalla parte di coloro che hanno marciato sempre accanto alla gente, al popolo.
Era amico di Fidel Castro, di tutti i leader argentini che hanno tentato di ridare dignità al derelitto paese sudamericano e dell’ex presidente venezuelano, Hugo Chavez. Di lui, Dieguito dirà che ha liberato il Sudamerica dalle sgrinfie degli USA, ridando ai suoi abitanti l’orgoglio di essere latini e di camminare da soli. Maradona era nato povero, diventato molto ricco, ma rimasto sempre col cuore dalla parte dei poveri. «Mangiavamo e dormivamo in otto in una stanza». «Quello che mi hanno tolto nella mia carriera non mi interessa. Darei tutto quello che ho perché i miei vecchi potessero aprire quella porta».
A Napoli gli dedicheranno lo stadio, ma, credo a giusta ragione, non sostituirà San Gennaro, anche se, quanto a numero di fedeli, siamo lì. Lo testimoniano le scene di delirio, seconde solo a quelle dei fan argentini davanti alla casa Rosada, che hanno costretto le autorità ad anticipare le esequie in forma più che privata.
Non sarà santificato. Ha commesso degli errori. Diego era genialità, ma anche fragilità. La droga e l’alcol, che gli erano costati uno stop di quasi due anni. L’evasione fiscale, e non certo per bruscolini. Il caos familiare-sentimentale. L’efedrina, uno stimolante che gli sarebbe servito per perdere peso in vista dei Mondiali statunitensi del 1994. Ricordate il suo gol contro la Grecia, con la susseguente corsa verso una telecamera a bordo campo? Volle manifestare la sua gioia, ma anche la sua rabbia. Quell’immagine deformata dall’obiettivo fu il simbolo di una delle sue tante morti. Ma come il Napoleone cantato dal Manzoni nel 5 Maggio, El Pibe de Oro, risorgeva. Riappariva magro, tirato a lucido, pronto ad affrontare altre sfide, dopo aver sempre pagato il prezzo dei suoi errori. Non ha mai accampato scuse. Non ha mai riversato colpe e responsabilità su spalle altrui. Dote non comune.
È fuori di dubbio che, passati lo sbigottimento e l’enfasi, di Maradona resterà, indelebile, soprattutto il ricordo di uno straordinario artista del pallone. Di un funambolo che, pur non avendo un fisico da incredibile Hulk, riusciva a stendere tutti. Spesso anche da solo. Ci vorrebbero volumi, non mezza pagina, per rievocare anche solo le highlights della sua inarrivabile carriera. Qualcuno ci ha provato. Su Diego sono stati pubblicati decine di libri. Sono stati girati decine di film e di documentari. Nel 2008 ci si era messo anche un gigante del cinema come Emir Kusturica. Farei tuttavia un torto all’asso argentino, se non riaccendessi la memoria sulle due reti più emblematiche della storia del calcio.
È il 22 giugno del 1986. All’Estadio Azteca di Città del Messico si affrontano Argentina e Inghilterra per i quarti di finale della Coppa del Mondo. Corre il 51° minuto, Diego avvia l’azione, tocca per Valdano che contraccambia con un pallonetto a centro area. Maradona legge il suggerimento, anticipa tutti e infila Shilton: 1 a 0. Non c’era il VAR. Gol valido, nonostante il sospetto fuori gioco del suo autore, e soprattutto nonostante il tocco malandrino con la mano. «È stata la mano de Dios», dirà Maradona. Per rendere onore a tutti i ragazzi che hanno perso la vita nella guerra anglo-argentina, con la quale i soldati di sua Maestà Elisabetta II soffiarono le Falkland/Malvinas all’Argentina.
Quattro minuti più tardi El Pibe mette in scena tutta la sua forza, tutta la sua genialità e la sua classe. Si beve in dribbling tutta quanta l’Inghilterra, chiama Shilton all’uscita e lo trafigge. Sembra un videogame, ma è realtà. È il gol del secolo. Tutto il resto è contorno. Come la chiesa maradoniana, nata due anni più tardi, che conta 800mila adepti e che calcola gli anni a partire dalla nascita del suo Dio. Diego è quindi scomparso nell’anno 60 d.D. Lo piangono in molti. Fra questi anche un suo illustre connazionale, Papa Francesco. Di lui, un intenerito Diego Armando Maradona ebbe a dire: «È lui, il vero fuoriclasse».