Scheda

Nato a: Mendrisio.
Età: 44 anni (45 anni a marzo 2022).
Abita a: Ellensburg, Stato di Washington, costa occidentale.
Insegna a: Central Washington University (CWU).
Hobby: rompere le scatole.
Rimpianto: non avere studiato una delle scienze esatte o naturali.
Sogno nel cassetto: essere ricordato come un buon papà e un marito decente.
Amo: il mare.
Non sopporto: l’ignoranza di certe cose.
La mia foto preferita: l’immagine della felicità nel primissimo piano di mia figlia a 5 anni, sorridente, in un parco divertimenti californiano.

Tre momenti chiave di una vita

Francesco, lei ha disposizione 666 battute per illustrare tre momenti topici della sua vita:
1. Il primo scoop, per laRegione, nel 1997, mi pare: dei genitori lanciavano una petizione per ripristinare il servizio dentario scolastico finito sotto la scure dei tagli. Bigiai lezione all’USI per andare in redazione a scrivere. La notizia fu ripresa.
2. 13 settembre 2010, giorno in cui Patrizia ed io decollammo da Kloten con le nostre vite in sei valigie sei e atterrammo a Eugene, Oregon. All’Ikea di Portland, con 3’000 dollari arredammo il piccolo appartamento che potevamo permetterci.
3. La prima lezione: davanti a 300 studenti, nel 2010, evidentemente in inglese. Ero in un bagno di sudore. Mi tremavano le mani e la voce. Realtà batte romanticismo dell’insegnamento
7-0.


Francesco, l’americano

Incontri – Francesco Somaini era cronista al «Corriere del Ticino» poi nel 2010 la decisione di andare a vivere e a studiare negli Stati Uniti. Oggi è il responsabile del Dipartimento di Comunicazione della Central Washington University
/ 21.02.2022
di Matilde Casasopra

Jeans, giubbotto di pelle, borsa a tracolla. È arrivato da circa un’ora. Da Chiasso a Muzzano c’è sempre traffico. Finisce la riunione di redazione. Sono le 18.00. L’urlo è il solito: «Radio! Cronache»! È in quel momento che, per qualcuno, inizia il turno di chiusura del giornale. Un giorno a me, un giorno a te. Non ricordo che giorno fosse esattamente. Quel giorno, però, era il giorno di Francesco Somaini. Ricordo gli occhi neri dietro gli occhiali. Ricordo il sorriso e quelle tre parole: «Ti posso parlare?». Apro la porta dell’acquario. Prima sta in piedi, poi si siede. Sceglie la sedia vicino alla finestra. La vista è sull’aeroporto.

«Ho deciso che lascio il Ticino. Vado in Oregon, a Eugene. Se non lo faccio adesso non lo faccio più. Patrizia è d’accordo. Partiamo insieme. I miei genitori? Un po’ meno. Anzi, diciamo pure che non sono d’accordo per niente». Attimo di smarrimento. E cosa vai a fare (se posso chiedere)? «Certo che puoi! Mi iscrivo all’università per conseguire un dottorato nell’ambito dei mass-media. Mi sono accorto che se resto qui mi fermerò prima del tempo. Non è quello che voglio. Quello del giornalista è un lavoro che sta cambiando rapidamente. Voglio imparare e capire perché».

Crisi. Il giovane Francesco, uno dei cronisti più promettenti del «Corriere del Ticino», tra i primi ad essersi laureato alla facoltà di Scienze della comunicazione dell’USI, ha deciso di andarsene. E poi? «Poi si vedrà. Impareremo a vivere in un altro paese o… torneremo in Ticino». Tutto ciò in un giorno del 2010 (che non ricordo esattamente quale fosse). Oggi, uno dei tanti giorni del 2022, Francesco e Patrizia sono ancora negli States. Non più in Oregon, ma nello Stato di Washington dove «il Dr. Somaini è responsabile del Dipartimento di Comunicazione della Central Washington University». Come sta? Cosa sta facendo? Come ci vede guardandoci dall’altra parte dell’Oceano?

Dr. Somaini – che d’ora in poi, se me lo consente, chiamerò semplicemente Francesco – ci spiega cosa significa essere responsabile del Dipartimento di Comunicazione? Quali i suoi compiti? Quali i suoi obiettivi?
Il ruolo di responsabile di un dipartimento è di servizio agli insegnanti e agli studenti di quel dipartimento. Significa preoccuparsi di una miriade di compiti amministrativi tra cui coordinare e valutare il lavoro degli altri professori, programmare i corsi sulla base del numero di studenti, aggiornare e sviluppare il curriculum per tenerlo al passo coi tempi, gestire le spese correnti, rappresentare i colleghi coi piani alti, gestire conflitti tra studenti e docenti. In questo momento, l’obiettivo è sopravvivere alle difficoltà causate dalla pandemia che ci ha obbligati ad insegnare a distanza per un anno intero, che minaccia di rimandarci online dalla sera alla mattina e ha contribuito a ridurre il numero di iscritti nelle università di tutta America. Nel lungo termine, mi piacerebbe che riuscissimo a trovare le risorse per assumere nuovi professori e offrire corsi ancora più interessati per i nostri studenti. Poi chissà. Sono stato eletto capodipartimento dai miei colleghi. Non l’avevo programmato. Mi sembra di fare un lavoro utile: difficile ma che dà soddisfazioni. È un mandato quadriennale rinnovabile.

Francesco, lei ha il doppio passaporto?
Sì. Svizzero e italiano. Qui adesso ho la residenza permanente, che equivale al domicilio, la famosa carta verde.

Che rapporto ha con i suoi studenti?
Lavoro in un’università dove si fa molto insegnamento e, di conseguenza, relativamente poca ricerca. Da professore associato senza doveri amministrativi, insegnerei nove corsi all’anno. Come capodipartimento, ho uno scarico e ne insegno solo tre. A Central, come chiamiamo la CWU, abbiamo all’incirca diecimila iscritti, e una proporzione di una ventina di studenti per docente. Questo ci consente di sviluppare un rapporto più personale con loro, difficile da attuare se avessimo classi di centinaia di loro in aule auditorio. Presto li si conosce per nome e si ha l’occasione di accompagnarli nella carriera accademica e nella preparazione al mondo del lavoro, ciò che trovo essere l’aspetto più appagante del mestiere.

Racconta loro (ai suoi studenti) di come vide (e visse) «la Merica» il primo anno nel quale vi si trovò a vivere?
Sempre. E cerco spesso di informarli delle somiglianze e delle differenze con la Svizzera, di cui gli USA sono una gigantografia. O forse è il contrario: la Svizzera è un’America in miniatura. Poco importa. Tutti noi abbiamo bisogno di prospettiva per confrontarci in modo sano con noi stessi e col mondo in cui viviamo. E certe prospettive si riescono a trovare solo andando via dai luoghi a noi famigliari per un tempo sufficiente. Non basta un soggiorno linguistico di qualche mese. Raccomando a tutti i miei studenti, se ne hanno i mezzi, di partire per l’estero per almeno un anno.

Cosa, allora, la mise maggiormente in difficoltà?
Gli scarsi mezzi economici con cui mia moglie ed io ci lanciammo nell’avventura del mio dottorato. I soldi non fanno la felicità, ma con pochi soldi, si riesce a sopravvivere in modi che accentuano la nostalgia di casa. Però è stato estremamente salutare: per alcuni anni ci siamo liberati di un certo materialismo e abbiamo reimparato ad apprezzare le cose che contano davvero, come passare tempo insieme, condividere progetti e scoperte, pianificare la nostra famiglia, sognare.

Cosa, allora, le diede la forza di continuare?
La speranza di avere maggiori opportunità lavorative una volta diplomato. Finché non si è presentata l’opportunità di lavorare qui, l’idea era sempre stata di rientrare in Svizzera e cercare lavoro in patria forti di quel diploma e di un lustro di esperienza nella prima economia del mondo. Però ha aiutato molto anche la consapevolezza che studiare di nuovo, prendere un diploma in un altro paese e in un’altra lingua, è un percorso arricchente in sé e per sé. Non è solo funzionale a obiettivi economici e professionali. Si va a scuola anzitutto per diventare più consapevoli delle cose del mondo e della vita: per diventare persone e cittadini migliori e meno manipolabili.

Lei Francesco, l’abbiamo detto, non partì solo. Con lei c’era – e c’è – Patrizia. Quanto importante fu – ed è – la sua presenza?
Fondamentale. Questa avventura l’abbiamo affrontata insieme e per lei è stata molto più difficile perché, finché non mi è stato dato un permesso di lavoro temporaneo dopo aver conseguito il dottorato, non le era consentito di fare alcuna attività lucrativa e non avevamo i mezzi per farla studiare. Le cose sono cambiate radicalmente quando mi hanno assunto alla Central Washington University. Patrizia si è subito iscritta a psicologia, in meno di quattro anni ha finito il bachelor, premiata come prima studentessa del suo corso, e poi, in neanche due anni, nel marzo del 2021 ha completato un master in psicologia sperimentale; appena diplomata, ha avuto la sua prima pubblicazione accademica e pochi giorni fa una seconda. Nel frattempo, ha iniziato il programma di dottorato in psicologia sociale dell’Università di Berna, che la terrà occupata per i prossimi tre anni. Studia cose importanti, come il modo in cui la nostra percezione delle persone con un colore della pelle diverso influenza le nostre azioni nei confronti di quelle persone. Patrizia è una ricercatrice nata. Un talento naturale. Spiace dover dire che a permetterle di fiorire è stata la flessibilità del sistema di istruzione superiore statunitense mentre in Svizzera non sarebbe stato possibile. Ci aveva provato ma si era scontrata con una burocrazia rigidissima che di fatto considerava il suo diploma di maturità professionale commerciale un certificato di inidoneità a studi universitari in materie diverse da quelle economiche.

Lei oggi «vuol fare l’americano» o si sente «americano»?
Nessuno dei due. Sono uno straniero, un immigrato europeo, di lusso, in terra americana.

E come vede quel puntino che, sul mappamondo, è quel Ticino dal quale è partito?
Con più consapevolezza che, nel bene e nel male, non è tanto diverso da alcuni luoghi che ho avuto modo di conoscere qui. Il mondo è pieno di ombelichi. Talvolta lo vedo con rabbia. Sempre con l’affetto che uno non può che provare per il luogo in cui è nato e cresciuto.

Sua figlia parla l’italiano?
Sì. Ha imparato prima l’italiano e poi l’inglese; adesso, fosse per lei, parlerebbe solo il secondo.

Francesco, lei si è mai sentito un «cervello in fuga»?
Piuttosto, un po’ di cervello mi è venuto fuggendo. Per restare in argomento, comunque, secondo me il problema non è tanto che i cervelli ticinesi fuggono. Se possono, i giovani ticinesi devono assolutamente lasciare il Ticino, e tornarci solo se vogliono dopo essere stati fuori il necessario. La domanda da porsi è: quanti e quali cervelli altrui attrae il Ticino? E perché attrae quelli?

… e… tornerebbe in Ticino?
Adesso no. Ma resta casa. Forse un giorno.