«È un po’ come nel calcio… Siamo genitori in panchina, pronti a scendere in campo per dare il cambio a genitori naturali confrontati con difficoltà o problemi, di vario genere, che impediscono loro di accudire i figli». La metafora sportiva si presta perfettamente per inquadrare una forma di aiuto, l’affidamento famigliare, che richiede impegno e motivazione. Si assume la responsabilità di genitori senza esserlo. È la signora, che chiameremo Angela, che ci racconta, avendo sedici anni di esperienza alle spalle e 21 ragazzi passati dal suo appartamento, un quattro locali e mezzo nella cintura di Lugano.
Affido significa assumere il ruolo di genitore, con bambini che possono essere neonati o anche ragazzi, per la durata di anni, sapendo quando si comincia, ma non quando si finisce: «apri la tua casa e il tuo cuore a un bambino in difficoltà», recita lo slogan dell’Associazione. Una specie di adozione temporanea, per bambini figli di genitori confrontati con malattie psichiche, con dipendenze, con fragilità di vario genere. Per le sue peculiarità che lo differenziano dall’adozione – collocamento provvisorio e rientro del minore nella sua famiglia d’origine – l’affido deve essere strettamente legato a un progetto di recupero non solo del minore ma, dove possibile, della sua famiglia, sottolinea l’ATFA.
«La difficoltà maggiore – precisa Angela – è non perdere la motivazione, non lasciarsi scoraggiare perché ci si deve confrontare con gli uffici e gli assistenti sociali, poi, e soprattutto, con la famiglia naturale, dove a volte intervengono anche altri parenti. Ci sono momenti in cui ti dici: ma chi me lo fa fare? Ma alla fine c’è la soddisfazione di partecipare a un progetto educativo, che rappresenta anche un mio arricchimento». Il rapporto tra famiglia affidataria e famiglia di origine è importantissimo, da questa relazione dipende la qualità dell’esperienza. Quando la famiglia naturale accetta di buon grado di dare in affido il figlio si crea una situazione di serenità reciproca. Bisogna riconoscere che – aggiunge Angela – «accettare che un’altra persona deve crescere tuo figlio perché tu non sei idoneo non è affatto facile».
Attualmente ci sono 129 famiglie affidatarie definite Family con 155 minori collocati: si tratta delle famiglie che si occupano di un affido di lunga durata, che può essere anche di una decina di anni o più. A queste bisogna aggiungere le famiglie SOS, che sono dieci: sono le famiglie che accolgono nei momenti d’urgenza, da pochi giorni a tre o sei mesi. In questo ambito figurano, da qualche tempo, i giovani minori non accompagnati che giungono nel nostro paese chiedendo asilo.
Angela ha avuto diverse esperienze come famiglia SOS, accogliendo ragazzi provenienti dall’Eritrea. «Sono giovani minorenni – spiega – ma non sempre dicono l’età giusta. Sono partiti dall’Africa a dodici o tredici anni, sono stati in giro per uno o due anni prima di arrivare in Svizzera. I minorenni non stanno al Centro di registrazione di Chiasso, quindi o vanno alla Croce Rossa a Paradiso, o in istituti o da noi. C’è molta difficoltà di comunicazione, perché non conoscono la nostra lingua, e siamo confrontati con un problema culturale non indifferente. Il giovane eritreo che stava da me si aspettava che io, essendo donna, facessi tutto in casa. Io cerco sempre di coinvolgerli nei lavori in casa, ma lui si rifiutava: fai tu, mi diceva. Ho dovuto insistere per fargli capire che da noi il ruolo di una madre di famiglia non è quello della domestica. Stabilire e far rispettare le regole non è semplice. È arrivato quest’estate quando c’erano gli europei di calcio e lui stava a Lugano fino a mezzanotte per seguire le partite. Ho dovuto insistere per farlo rientrare presto la sera. D’altra parte sono anche fragili, ci sono momenti di crisi, sono tristi e piangono. Allora non resta che abbracciarli, ma non sempre si lasciano abbracciare».
I vicini di casa che atteggiamento hanno nei confronti dei giovani africani che vivono con lei? «Ho avuto qualche problema – ci dice Angela – perché alcuni coinquilini, i più anziani, hanno reclamato con il padrone di casa, che si è fatto vivo chiedendomi chi fossero questi giovani. Pensava forse che avessi organizzato una pensione o qualcosa del genere. Ho spiegato che sono una mamma affidataria e la cosa si è risolta».
Le famiglie affidatarie sono finanziate dal Cantone. Per un ragazzo accolto per un lungo periodo la famiglia riceve una retta di 1500 franchi mensili. Per l’affido SOS duemila franchi perché in questi casi bisogna comperare tutto, i ragazzi arrivano senza niente. «Il mio giovane eritreo – racconta Angela – quando ha saputo che io ricevevo questi soldi mi ha chiesto di averli lui direttamente. Non è stato facile spiegargli che il denaro era un contributo per le spese di alloggio, per il cibo, per i vestiti e tutto quanto».
Chi sono i genitori affidatari che fanno capo all’ATFA? «Sono coppie sposate o non sposate – precisa Elisa Ferrari, assistente sociale dell’Associazione – con o senza figli, possono essere anche singoli. Non ci sono restrizioni, quest’anno abbiamo anche una coppia omosessuale, due donne, che hanno scelto di diventare genitori affidatari. Noi ci occupiamo di garantire l’affidabilità delle persone che si mettono a disposizione. C’è un lungo percorso formativo e di valutazione da parte di assistenti sociali e psicologi. Circa otto incontri prima che la famiglia possa venir considerata idonea». Un aspetto significativo è che delle 129 famiglie affidatarie attive, 83 sono di parenti dei bambini: vale a dire perlopiù nonni o zii. «La famiglia riesce ancora, per fortuna, a offrire solidarietà e sostegno nel caso del bisogno», sottolinea Elisa Ferrari.
L’ATFA è sempre alla ricerca di famiglie affidatarie. Attualmente ci sono 7 o 8 bambini che sono in attesa di essere collocati. È abbastanza facile trovare ospitalità per i neonati, molto più difficile sistemare gli adolescenti. Accogliere in famiglia un adolescente è certamente più complicato, chiede un maggior impegno relazionale e anche capacità di esercitare un ruolo genitoriale con autorevolezza.
Uno dei punti delicati dell’affido è il rientro alla famiglia naturale del ragazzo. La famiglia affidataria accoglie un bambino di tre o quattro anni che dopo una decina di anni può tornare nella famiglia d’origine. Un momento delicato per i genitori affidatari che devono accettare questo distacco. «Proprio come l’inizio dell’affido – ci dice Stefania Catti, anche lei assistente sociale di ATFA – la fine del collocamento deve essere gestito in modo graduale. Il bambino ricomincia ad andare a casa dei genitori per alcuni giorni a settimana, poi via via ci sta sempre di più e diminuisce il soggiorno presso la famiglia affidataria. Solo se l’inserimento non è problematico, il minore può tornare definitivamente a casa».
«Il percorso del rientro – precisa Ferrari – va costruito con cura. Se anche la famiglia naturale viene ritenuta idonea per riaccogliere il minore, non è automatico che questo venga riaccolto. Bisogna valutare con attenzione qual è il bene per il ragazzo, partendo anche dal suo punto di vista. I bambini che hanno più di sei anni vengono ascoltati e presi in considerazione dall’Autorità competente e dallo psicologo».
Per aiutare le famiglie affidatarie nel loro compito, delicato e non sempre facile, ATFA organizza dei gruppi di auto aiuto. Sono momenti di confronto che garantiscono un sostegno alle famiglie nei momenti difficili: in particolare, all’inizio dell’esperienza o alla fine, quando ci si deve staccare dal «figlio». «La fase del distacco per me non è mai stata un problema – ci dice Angela – mi sono sempre preparata per tempo. Il destino del ragazzo è quello di diventare indipendente, se ha 18 anni, o anche di ritornare in famiglia. L’affido deve sempre tener conto della famiglia d’origine e non ci si può sostituire».
«Cercasi casa spaziosa a prezzo modico». Fra i progetti dell’Associazione c’è la «casa famiglia». L’idea è di poter ospitare almeno un gruppo di sei o sette ragazzi, soprattutto adolescenti, che non stanno bene in istituto o in foyer e che necessitano di un ambiente famigliare. Una famiglia affidataria potrebbe essere anche costituita da persone con formazioni adeguate (assistenti sociali o educatori) che gestiscono questi giovani in un’abitazione adatta. Perciò l’ATFA è alla disperata ricerca di una casa. L’Associazione ha scritto ai comuni, alle parrocchie, alle fondazioni, ma senza successo. Dunque, possiamo concludere questo breve incontro con la realtà dell’affido lanciando due messaggi. Primo, si facciano avanti le famiglie o le persone che sono disposte ad affrontare questo percorso, impegnativo, ma ricco di soddisfazioni relazionali ed educative. Secondo, se qualcuno può mettere a disposizione un’abitazione, anche modesta, ma spaziosa, a prezzo modico, sarebbe un’occasione che permetterebbe di lanciare un nuovo progetto a favore di giovani e di famiglie in difficoltà.