Digiuno digitale

In media guardiamo lo smartphone 150 volte al giorno, ma il multitasking ci rende meno efficienti e porta a un esaurimento delle funzioni cerebrali
/ 27.02.2017
di Stefania Prandi

Nell’epoca dell’iperconnessione continua è utile provare a dedicare qualche ora al giorno – se non un’intera giornata, magari nel weekend – al digiuno digitale: staccare completamente da qualsiasi dispositivo, per migliorare la concentrazione e la memoria. Gli avvisi dei messaggi, dei like, delle foto, che compaiono in continuazione sul cellulare, il fatto che non siamo mai certi di quando arriverà la prossima notifica, «premio» attivatore della dopamina, creano una vera e propria dipendenza, spiega Tristan Harris, filosofo, ex consulente di Google. Dopo avere lavorato per anni nella Silicon Valley, culla dei social network, Harris ha espresso critiche pesanti sul modo in cui ci facciamo influenzare dai nostri smartphone ed è diventato leader del movimento Time Well Spent (Il tempo speso bene) che mette in guardia dal tecnostress e dalla dipendenza inconsapevole chiedendo ai designer che lavorano per le app e i social network di non pensare soltanto al profitto, ma anche al bene delle persone. 

Per dare l’idea dell’impatto in termini di tempo sulla nostra vita, basta pensare che interrompendo un’attività per una notifica di Facebook ci vogliono 25 minuti circa per riuscire a concentrarci di nuovo. Per riuscire a ridurre il tempo «sprecato» ci sono vari trucchi, indicati da Harris sul sito www.timewellspent.io: lasciare il cellulare fuori dalla stanza da letto la sera oppure lontano dalla vista mentre si cena o si è impegnati in altre attività; usare applicazioni che riducano le notifiche e velocizzino la scrittura; preferire i messaggi audio a quelli da digitare.

Un libro appena pubblicato in inglese, intitolato La mente distratta (The distracted mind), racconta che il multitasking elettronico ci rende meno efficienti e porta a un esaurimento delle funzioni cerebrali perché i nostri cervelli non sono pronti per queste continue sollecitazioni. I due autori, Adam Gazzaley, professore al dipartimento di Neurologia, Fisiologia e Psichiatria all’Università della California (San Francisco) e Larry D. Rosen, professore emerito di Psicologia alla California State University Dominguez Hills, dimostrano, attraverso ricerche ed esempi, che il continuo passaggio da un’attività all’altra compromette la nostra capacità di concentrazione. Alla stessa conclusione sono arrivati Earl Miller, ricercatore al Mit di Boston, esperto in studi sul decision-making e sull’attenzione e il neuroscienziato Daniel J. Levitin, professore alla McGill University.

I neuroscienziati sembrano avere particolarmente a cuore il «risparmio» di tempo. Così è stato possibile parlare con il professor Gazzaley soltanto dopo vari scambi di email con la segretaria che ha dato disponibilità inderogabile per l’intervista con «Azione» per un solo giorno nell’arco di due settimane, all’una di notte svizzera (quattro del pomeriggio californiane). Il professore è arrivato al telefono trafelato, con un quarto d’ora di ritardo, e dopo essersi versato del tè ha risposto alle domande in sette minuti. Ha spiegato che per riuscire a dare il meglio è necessario imparare a controllare le continue sollecitazioni dei vari dispositivi high tech. «Il primo passo per avere un giusto atteggiamento è diventare consapevoli della forza e dei limiti del nostro cervello. Spesso siamo molto bravi a crearci degli obiettivi importanti, ma non siamo sempre altrettanto capaci di portarli a termine perché ci facciamo distrarre in continuazione, con conseguenze negative sul risultato finale. Questo avviene anche con azioni apparentemente semplici, come rispondere a un messaggio mentre guidiamo, oppure controllare Facebook mentre lavoriamo». Il secondo passo è ridurre al minimo, nel nostro ambiente di lavoro o di studio, tutto quello che ci impedisce di concentrarci. «Poi dobbiamo decidere quando vogliamo essere multitasking e quando no, dicendo espressamente alle persone che ci cercano con le email oppure su WhatsApp o Messenger che in quel momento non possiamo rispondere. Possiamo trovare un metodo, magari avvisandole in anticipo. Da ricordare che non è un male in sé fare più cose contemporaneamente, il problema è soltanto che così non riusciamo davvero a dare il massimo». 

Infatti, a livello evolutivo il nostro cervello non è in grado di dedicarsi a più cose insieme nello stesso momento, ma passa molto velocemente da un’attività all’altra, causando una perdita di livello in tutta l’esecuzione, dal piano cognitivo a quello emozionale, alla nostra capacità di prendere decisioni, al processo di apprendimento. Anche la memoria risente del multitasking: ricordiamo nozioni e avvenimenti perché filtriamo, anche a livello inconscio, le informazioni irrilevanti da dimenticare. Se invece ci mettiamo a esaminare tutte le informazioni irrilevanti, veniamo continuamente distratti, creando delle interferenze, con esiti negativi: le rappresentazioni nel cervello si degradano e non riusciamo ad ottenere una performance di alto livello.

La situazione si complica per i nativi digitali (i nati dopo il 1996) e i mobile-born, cioè i bambini di oggi, che prima di imparare a camminare sanno già muovere le dita su tablet e smartphone, esposti dall’infanzia a continue sollecitazioni e senza memoria di come si viveva e pensava nel mondo analogico di pochi decenni fa. Secondo Gazzalye, «come società dobbiamo sforzarci di pensare che in famiglia e a scuola bisogna riuscire a trovare nuovi strumenti e metodi per fornire ai bambini e ai ragazzi la possibilità di proteggersi da quest’esposizione senza precedenti alle informazioni, mettendoli in guardia dal rapido ciclo della ricompensa dei social network. Un modo può essere insegnare a sentirsi a proprio agio nello svolgere una sola azione per un certo arco di tempo, mettendo tutta l’attenzione e l’impegno possibile, osservando che i risultati sono diversi da quando invece ci si concentra soltanto per pochi istanti e si passa subito a qualcos’altro. I ragazzi esercitano già questa capacità quando giocano con i videogiochi, ad esempio».