Ci sono momenti in cui, pur parlandogli, si ha come l’impressione che lui sia altrove e invece… è lì. Ti ascolta così attentamente da sembrare assente e invece… è presente al punto che, quando ti risponde, sa andare subito al cuore del problema, della domanda, della questione. Thomas Meylan è uno che sa passare inosservato, ma è un grande osservatore. Ergoterapista di professione, qualche anno fa ha ridotto sensibilmente l’uso dell’automobile per la bicicletta e durante la pandemia, con un gruppo di amici, ha dato vita, a Pregassona, a un orto coltivato sulla base dei principi fondanti la permacultura. Un’esperienza che Thomas, con Lara – la sua compagna – intende proseguire nel canton Vaud, dove già lavora da questa primavera e dove da questo mese di dicembre andrà ad abitare.
Perché lasciare il Ticino per il canton Vaud?
Il motivo principale è che a Montreux c’è la casa dei miei nonni. I figli – rispettivamente genitori – avevano ormai la loro casa e, questa dei nonni, era, diciamo così, superata dagli standard abitativi attuali. Bref: nessuno ci sarebbe andato ad abitare. La decisione: venderla. Così, dopo un accordo con la famiglia, la mia compagna (che è architetta) e io abbiamo deciso di andarci a vivere. Una decisione che risale all’estate del 2020. Entrambi, allora, lavoravamo in Ticino. La sera del venerdì partivamo per Losanna e nel tempo libero eseguivamo quei lavori necessari a rendere la casa… abitabile.
Insomma, una scelta fondata su una casa…
No. Diciamo che la casa è stato lo spunto, il pretesto, per rivedere la vita che stavamo conducendo. Una vita sempre più imprigionata in un circolo di abitudini che avrebbero, prima o poi, potuto trasformarsi in routine. Insomma, abbiamo deciso di cambiare per evitare una «morte lenta». Lara, abituata a vivere fuori dal Ticino, e che come me aveva bisogno di ampliare i suoi orizzonti, si è trasferita prima. Da gennaio 2021 è assistente al Politecnico federale di Losanna e segue una formazione di nutrizione olistica a Ginevra. Mi sto progressivamente trasferendo anch’io per continuare lì il mio lavoro di ergoterapista.
Lei, infatti, è ergoterapista. Com’è arrivato a scegliere questa professione?
Diciamo che non è stata la mia prima idea… Chissà… Forse perché ho un approccio lento a quelle che si definiscono le «scelte di vita».
Approccio lento. Esemplificando?
Mi viene in mente mia madre che mi racconta di quando ero piccino e di come, mentre mi spingeva in passeggino, mi allungassi per regalare qualsiasi cosa avessi a portata di mano ai passanti, per strada così come al parco. Normalmente le persone, quando definiscono il periodo dell’adolescenza – che è il periodo della presa di coscienza di sé, della ribellione alle regole e alla routine – indicano il periodo tra i 12-13 anni e i 18. Ebbene, la mia adolescenza è iniziata tra i 16 e i 17 anni. Ero al liceo e, grazie a docenti particolarmente sensibili, mi sono reso conto del fatto che vivevo ai margini della realtà. Questi docenti mi hanno insegnato a leggere i giornali, a individuare i messaggi subliminali e le letture di parte che, a dipendenza della testata, potevano essere fornite di un medesimo evento. Così… mi sono svegliato dal mio mondo perfetto, ordinato ed empatico. Mi sono svegliato e ho capito che il mondo non era quel luogo meraviglioso che, grazie ai miei genitori, avevo imparato a pensare che fosse.
E quindi?
Ho cominciato a frequentare il Centro Sociale Organizzato Autogestito e antiteticamente lavoravo al supermercato e per agenzie di collocamento mentre finivo il liceo. Volevo vivere a modo mio. Poi ho trovato lavoro a Zermatt come cameriere e mi è venuta l’idea di dedicarmi alla ristorazione. No. Non ho aperto un bar, ma ho incominciato a lavorarci, a Lugano. Ed è così che ho scoperto che, ad appassionarmi, erano soprattutto le persone in quanto tali. La ristorazione offre molte possibilità in quest’ambito, ma più passava il tempo, più mi rendevo conto che non mi bastava questo rapporto del tipo «toccata e fuga». Mi sono guardato allo specchio e ho capito che dovevo decidermi a fare qualcosa per dare uno sbocco al mio interesse naturale per la relazione d’aiuto. Ho letto, mi sono informato e poi ho scelto: l’ergoterapia racchiude in sé tutti gli aspetti che cercavo. Sono tornato a scuola e, nel 2014, ho conseguito il Bachelor of Science SUPSI in Ergotherapie con un lavoro di tesi in ambito ergonomico.
Tutto bello, ma… proprio perché è lei stesso a porre l’accento sull’interazione personale le chiedo: com’è riuscito a lasciare le persone con le quali era entrato in relazione come ergoterapista?
Vede – e preciso che la definizione non è mia ma dell’Associazione svizzera degli ergoterapisti – l’ergoterapia è una professione incentrata sullo sviluppo e il mantenimento della capacità di agire delle persone contribuendo al miglioramento della loro salute e qualità di vita. Le persone – anziani, bambini, adulti – che ho incontrato, i miei «clienti», hanno intrattenuto con me un rapporto personale e professionale. Ho offerto loro le mie competenze per far sì che potessero performare meglio le attività nel loro mondo. Io, come ergoterapista, sono una presenza occasionale determinata dai casi della vita. Arrivo con un mandato medico. Do una mano per tornare a una vita nella norma. Poi esco di scena. Se non lo facessi vorrebbe dire che non sono riuscito a svolgere al meglio il mio lavoro. Certo, ci sono rapporti che resistono anche oltre la cura, ma a quel punto si parla di amicizie e, come accade anche nella vita extra-lavorativa, le amicizie sono rare.
Scusi, ma ha un segreto per essere così «immerso nel» e così «distaccato dal» mondo?
Più che un segreto è una pratica di vita che ho scoperto grazie a mia madre che è insegnante di yoga. Già a 16 anni mi sono avvicinato alle discipline yogiche tramite un piccolo manuale scritto da Babacar Khane, maestro che ha sviluppato una pratica fondendo nei-chia, lo stile interno del kung-fu, con lo yoga egiziano. A 25 anni mia madre mi ha introdotto al Raja Yoga. Ne sono rimasto affascinato e ho così seguito il ciclo formativo di quattro anni per insegnanti Viniyoga con Claude Marechal che sviluppa e tramanda gli insegnamenti di Krishnamacharya e di suo figlio Desikachar. È così che da anni, ormai, oltre ad essere ergoterapista sono occasionalmente anche insegnante di yoga. Uno yoga lontano dalle posizioni acrobatiche. Nel mio corso la pratica si fonda soprattutto sulle asana di base e il pranayama.
Nella sua scheda come sogni nel cassetto ha indicato la cupola geodetica e la condivisione dei principi della permacultura. Pensa di realizzarli?
Diciamo che provo a realizzarli. E… vede… siamo tornati da dove siamo partiti. La casa dei nonni. Come tutte le case contadine anche quella dei miei nonni ha l’orto che, con Lara, stiamo già coltivando secondo i principi della permacultura. Entrambi siamo convinti che Bill Mollison, fondatore della permacultura, aveva ragione quando affermava che «il più grande cambiamento che dobbiamo fare è dal consumo alla produzione, anche se su piccola scala, nei nostri giardini. Se solo il 10% di noi lo fa, ce n’è abbastanza per tutti». Noi ci stiamo provando. Per la cupola geodetica… sì, forse ci vorrà un po’ più di tempo, ma mai dire mai.