Ho seguito le gesta olimpiche dei cosiddetti atleti disabili attraverso le testimonianze di alcuni blogger. Anche perché non era così scontato trovarne le tracce sui vari canali televisivi. La copertura mediatica è cresciuta, rispetto a quanto non si facesse agli albori della manifestazione, quando nel 1948 il neurochirurgo tedesco Ludwig Guttmann diede il via al progetto. Tuttavia non c’è paragone rispetto allo sport «ordinario».
Riconosco che il sistema mediatico racchiude in sé anche alcuni aspetti perversi. Fra questi la costante ricerca del fenomeno diverso, capace di inchiodare i telespettatori davanti allo schermo. Qualcuno ricorderà, 40 anni or sono, la tragedia di Vermicino, con Alfredino Rampi, il bimbo di sei anni imprigionato in un pozzo artesiano, 36 metri sottoterra. I tecnici della RAI mostrarono il meglio di sé, consentendo al piccolo di comunicare con i genitori e i soccorritori in superficie. Ma la macchina mediatica seppe anche scatenare il voyeurismo del grande pubblico, con un’impressionante serie di lunghi collegamenti in diretta per seguire i numerosi, e purtroppo vani, tentativi di salvataggio del bambino. Fu una prima assoluta, in Europa. La TV in formato USA era stata sdoganata. Aveva fatto capire che la gente aveva bisogno di prestazioni degne di nota, ma anche di storie.
Pure il mondo dello sport vive di storie, che vanno oltre i risultati. Ad esempio, ai recenti Giochi Olimpici di Tokyo, in Italia è esplosa la «staffettomania». Nell’atletica, la 4x100 maschile ha acceso gli entusiasmi della gente e la curiosità dei cronisti. Commovente la storia di Filippo Tortu. Il giovane talento sardo, deludente e deluso sui 100, si riscatta, ergendosi a eroe con una miracolosa progressione che regala l’oro ai suoi nella prova a squadre.
Suggestiva anche la vicenda di Marcell Jacobs, padre texano, militare di stanza a Vicenza, madre veneta, che decide di non seguire il compagno negli Stati Uniti. Marcell nasce a El Paso, ma cresce sulle sponde del Lago di Garda, con l’Italia nel cuore. E che dire di Eseosa Fostine Desalu, di origini nigeriane, italiano dal 2012? Sua mamma viene invitata a una trasmissione televisiva che celebra gli eroi azzurri della staffetta, ma lei declina l’invito: «Devo lavorare, non posso lasciare da sola la signora di cui mi occupo».
Anche il mondo dello sport paraolimpico è zeppo di belle storie, di esempi, di cuori pulsanti capaci di portare acqua al desolante e arido deserto sentimentale che ci sta piano piano colonizzando. Ne cito una, ma sono mille. Monica Graziana Contrafatto era caporalmaggiore dei bersaglieri dell’esercito italiano di stanza in Afghanistan nel 2012. A Farah, nel sud-est del paese, rimase vittima di un attentato. Una bomba che intendeva colpire il contingente di pace le provocò danni all’arteria femorale, all’intestino, a una mano, e la privò della gamba destra. Dedizione, forza di volontà, determinazione, allenamenti costanti l’hanno sospinta alla conquista della medaglia di bronzo sui 100 metri ai Giochi Paraolimpici di Tokyo. Ne aveva già conquistata una, al valore militare, poiché in quella sventurata esplosione del 2012, il suo coraggio aveva evitato una strage di dimensioni maggiori. Qual è stato il suo primo commento dopo essere scesa dal podio olimpico? «Voglio tornare in Afghanistan per mettermi a disposizione della gente, dei bambini, dei malati di quel paese».
L’Italia, dal Giappone, si è portata a casa 69 medaglie, 69 storie degne di essere raccontate. Infatti, negli ultimi anni, i media hanno saputo cavalcare l’onda. Bebe Vio e Alex Zanardi hanno una dignità e un’esposizione da supereroi. In Svizzera, siamo più restii nel dare lustro alle imprese dei para-atleti, nonostante le 14 medaglie portate a casa, frutto della forza di carattere di campioni come Marcel Hug e Manuela Schär.
Da noi la cultura dello Star System è piuttosto timida. Tuttavia, fenomeni come Heinz Frei meritano di essere raccontati. A Tokyo ha vinto l’argento nel para-ciclismo. E allora, dirà qualcuno? Allora, tutti in piedi e giù il cappello. Ha 63 anni. Da 40 porta la bandiera rossocrociata in giro per il mondo. Per lui si tratta della 38° medaglia (18a d’oro) ai Giochi paraolimpici, tra maratone in carrozzella, ciclismo e sci di fondo.
Heinz è un’icona, un monumento. Anni or sono, presso la clinica riabilitativa di Nottwil, lo avevo visto impostare uno dei primi allenamenti di un giovane paraplegico. Uno spettacolo, di rara umanità ed empatia. Personaggi e atleti come lui non hanno nulla da invidiare a quelli olimpici. Vedere una sfida fra atleti con protesi, o in sedia a rotelle, non credo sia meno entusiasmante che seguirne una fra i cosiddetti normodotati. Quindi, perché non garantire ai primi una copertura mediatica simile a quella dei secondi?
Questo consentirebbe loro di entrare nel cuore della gente e di staccare contratti pubblicitari in grado di garantire loro continuità di lavoro, oltre che qualche agio in più. Immagino già la risposta: una copertura più massiccia genererebbe costi difficili da sopportare.
E allora perché non compiere il grande salto e fondere giochi olimpici e giochi paraolimpici in una sola grande manifestazione. Si tratterebbe di approfittare di un’unica macchina organizzativa, sfoltendo magari leggermente il programma. In un mondo in cui il concetto di «inclusione» viene sbandierato come un obiettivo imprescindibile, sarebbe un passo fondamentale verso le pari dignità.