Il 5 giugno scorso si è celebrata la Giornata mondiale per l’ambiente 2018 (http://worldenvironmentday.global/) e la sfida lanciata quest’anno riguardava il netto contrasto alla dipendenza che l’uomo moderno ha sviluppato per la plastica, in particolare per quella monouso. #BeatPlasticPollution (abbattiamo l’inquinamento da plastica) è l’hashtag scelto per la campagna. Si tratta di una sfida titanica, se pensiamo che, secondo il Programma per l’Ambiente dell’Onu (UNEP), ogni anno vengono riversati in mare 8 milioni di tonnellate di plastica, che da soli costituiscono l’80 per cento dei rifiuti oceanici. Secondo il rapporto «Improving Markets for Recycled Plastics: Trends, Prospects and Policy Responses», rilasciato dall’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) lo scorso 24 maggio, servono maggiori incentivi per una progettazione responsabile di beni in plastica, soprattutto per facilitarne il processo di riciclaggio. Non possiamo permetterci di fallire, sicuramente non possiamo continuare a sottovalutare il problema.
Se molto dobbiamo a questo materiale moderno e versatile, facciamo tuttavia un uso irresponsabile soprattutto di prodotti monouso (il 50 per cento dei prodotti che utilizziamo), con ricadute pesantissime sull’ambiente, in particolare sull’ecosistema marino. I numeri parlano da soli: ogni anno, al mondo, vengono utilizzati più di 5 trilioni di sacchetti in plastica, mentre ogni minuto vengono vendute 1 milione di bottigliette di acqua, sempre di plastica. Circa un terzo del packaging che utilizziamo sfugge ai sistemi di raccolta, con il risultato che in mare finiscono circa 13 milioni di tonnellate di plastica all’anno. Questi rifiuti fanno il giro del mondo anche quattro volte l’anno e il loro tempo di biodegradazione può arrivare a 1000 anni. Quello che abbiamo fino a poco tempo fa sottovalutato è l’impatto di questo elemento sulla nostra catena alimentare.
L’allarme lanciato ormai da qualche anno sulle ricadute negative per la salute sia del pianeta che degli esseri umani, ha dato impulso ad una serie di ricerche per trovare soluzioni alternative e sostenibili che contengano l’utilizzo di materie plastiche e che possano contribuire a contenere gli sprechi che si realizzano lungo tutta la catena alimentare dal «campo alla tavola». In questo solco si trovano anche le attività del gruppo di ricerca guidato dalla professoressa Annamaria Ranieri, del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’università di Pisa, che sta appunto studiando il riutilizzo degli scarti di produzione alimentari per la realizzazione di bio rivestimenti edibili, in grado di proteggere i valori nutritivi di alcuni alimenti (la sperimentazione è stata fatta su mele e pomodori) senza alterarne il gusto. La ricerca è stata pubblicata sulle riviste «Journal of Food processing and Preservation» e il «LWT – Food, Science and Technology».
«Come comunità scientifica ci poniamo il problema della gestione virtuosa e sostenibile degli scarti della produzione agroalimentare – spiega la professoressa dell’ateneo pisano – dall’altra parte l’obiettivo è dare ai consumatori prodotti che, dalla raccolta alla tavola, riescano a mantenere l’aspetto e le proprietà organolettiche e salutistiche».
Il focus della ricerca è l’utilizzo di biopolimeri naturali ed edibili per mantenere le proprietà nutraceutiche della frutta durante la conservazione. In particolare, sono stati condotti due studi: il primo sulle mele Fuji e il secondo sui pomodori. Nel caso delle mele, i ricercatori hanno utilizzato come rivestimento la gelatina, polimero a base di collagene ottenuto dalla lavorazione dei tessuti connettivi animali e già ampiamente utilizzato nell’industria farmaceutica per i rivestimenti delle capsule.
Nel caso dei pomodori, invece, il rivestimento utilizzato è il chiosano, polimero derivante dalla chitina, sostanza presente negli esoscheletri di crostacei e nelle pareti cellulari dei funghi. Entrambi i rivestimenti, che sono comunque commestibili, possono essere facilmente eliminati con un lavaggio in acqua dell’alimento così rivestito. Si è riscontrato un rallentamento della maturazione di circa tre giorni, testimoniato da un picco di accumulo di composti importanti dal punto di vista nutrizionale, come carotenoidi, acidi fenolici e flavonoidi. Un ulteriore obiettivo della ricerca, al momento in corso in collaborazione con il Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa, consiste nel verificare la possibilità di aggiungere a queste pellicole commestibili, composti salutari, come ad esempio le vitamine, in modo da potenziare gli alimenti e renderli ancora più benefici per il nostro organismo (super food).
Nell’ottica delle campagne per la riduzione delle materie plastiche e soprattutto nel contesto di una economia circolare, «La maggiore conservabilità nel tempo – conclude la professoressa Ranieri – potrebbe inoltre contribuire ad evitare lo spreco alimentare in differenti punti della filiera dalla raccolta al consumo». Perfettamente in linea allo slogan «If you can’t reuse it, refuse it» (Se non puoi riciclarlo, rifiutalo), coniato per il World Environment Day di quest’anno.