Da vicino nessuno è normale

Secondo la psicologa tedesca Kristina Fisser, quando pensiamo alla salute mentale dovremmo abbandonare l’idea di «normalità» perché, chi più e chi meno, tutti abbiamo qualche «problemino» E il confine con il patologico, spesso, è sottile
/ 05.10.2020
di Stefania Prandi

«È normale non essere normali». Con questa premessa la psicologa tedesca Kristina Fisser affronta le sedute con i pazienti che riceve nel suo studio privato. Da anni segue persone con ansia, dipendenze, disturbi ossessivo-compulsivi e depressione post partum. Ha deciso di raccontare il suo approccio in un libro appena pubblicato in italiano, scritto con la collaborazione dell’autrice Carina Heer, e intitolato Da vicino nessuno è normale. Paranoie quotidiane e psicotrucchi per uscirne vincenti (Feltrinelli). Nel testo si legge: «Chi più e chi meno, tutti noi qualche “problemino” ce l’abbiamo. E il confine con il patologico, spesso, è sottile». 

Per chiarire meglio il concetto, Fisser analizza casi di persone che sembrano in bilico tra «normalità» e «squilibrio». Uno degli esempi riguarda Pietro, che si annoia sul posto di lavoro. Da tre anni non ha mai abbastanza da fare e non sa come dirlo ai superiori, gli sembra che ormai sia troppo tardi per esporsi. Quando siede alla scrivania con lo sguardo perso, la testa gli si riempie pensieri negativi e immagina di lanciarsi dalla finestra. Ha parlato con i colleghi della situazione, ma loro non capiscono, gli dicono che dovrebbe essere contento di non avere ritmi frenetici. 

Giuliano, invece, pur essendo sposato, vuole dormire da solo. La moglie non lo disturba nel sonno, non russa né si muove in continuazione, soltanto a lui piace riposare per conto proprio. Lei, però, sostiene che se si ama una persona si vuole condividere il letto e gli dice che dovrebbe andare da uno psicologo a farsi aiutare. Claudia vive un lutto da cinque anni, da quando ha perso il marito Tommaso in un incidente. Era presente al momento della tragedia e non ha potuto fare nulla per aiutarlo. Da allora, ha cresciuto da sola i due figli. A volte va a camminare nel bosco e urla alle piante tutto il suo dolore per la mancanza di Tommaso. E se può, trascorre la domenica nel letto a piangere. 

Fisser si chiede: Pietro, Giuliano e Claudia, hanno comportamenti «anormali» che vanno «curati»? In realtà, risponde, il concetto di «normalità» non serve per riuscire a capire come funziona la psiche umana. Si tratta di un’idea che porta a considerare la maggior parte dell’umanità a rischio follia, mentre invece non è esattamente così. Spiega: «Sono dell’opinione che anche se si supera un certo limite, non si dovrebbe subito pensare a un comportamento patologico, sempre a condizione che la cosa non arrechi danno ad altri e che il diretto interessato sia consapevole delle eventuali conseguenze». Patologizzare tutto non è sensato: atteggiamenti e comportamenti, anche se apparentemente non canonici, in fondo lo sono abbastanza.

«Dolori, sofferenze, dispiaceri e le varie fisime di ogni giorno fanno parte della vita; oggi sembriamo essercene un po’ dimenticati». Quindi, considerando i casi concreti, Pietro potrebbe essere sull’orlo di una depressione ma cercando un altro posto di lavoro potrebbe uscire da solo dall’impasse in cui si trova. Giuliano, a sua volta, dovrebbe capire se la moglie ha voglia di «liberarsi dell’aspettativa convenzionale che due coniugi debbano per forza condividere lo stesso letto». E Claudia «può tranquillamente piangere, anche a distanza di anni, la scomparsa del marito», quello è il posto che lei concede al proprio dolore. Finché riesce a riemergere ogni volta dal lutto, non deve per forza superare la cosa una volta per tutte. 

In generale, gestire le emozioni è un compito piuttosto difficile all’interno della nostra società, soprattutto per quanto riguarda quelle «negative», che vengono stigmatizzate e represse. «Dobbiamo reimparare a provare le emozioni. Dobbiamo percepire quello che sentiamo», suggerisce Fisser. Ciò non significa agire impulsivamente in ogni occasione, ma riconoscere e accettare le cosiddette emozioni primarie (chiamate anche di base) e cioè paura, rabbia, disgusto, gioia, sorpresa e tristezza. Per esercitarsi a definire in modo più esatto quello che si sente, mettendo ordine al caos interiore, si può tenere un diario, nel quale scrivere cosa si è provato in determinati momenti.

Non serve per forza compilarlo la sera: l’ideale è trovare, durante la giornata, qualche minuto per confrontarsi con la propria sfera emotiva per riuscire, col tempo, a esternarla senza farsi sopraffare.

Secondo una ricerca pubblicata sull’American Journal of Physical Anthropology, quando si pensa all’equilibrio mentale sarebbe opportuno considerare che certi disturbi come ansia, depressione e sindrome da stress post-traumatico sono spesso «risposte alle avversità piuttosto che squilibri chimici». Stando allo studio degli antropologi Kristen L. Syme e Edward H. Hagen, i sistemi di difesa della mente si attivano in situazioni di pericolo per ridurre al minimo il danno. In questo senso, l’ansia è una preoccupazione che serve per evitare un pericolo. La depressione può essere intesa come un «dolore fisico» che aiuta a focalizzarsi sugli eventi avversi per cercare di mitigare il loro impatto ed evitare di incorrere, nel futuro, negli stessi problemi.

Per quando si è giù di corda, per capire se è necessario l’aiuto di un professionista, la psicoterapeuta tedesca Rosemarie Piontek, autrice del libro Mut zur Veränderung (Il coraggio di cambiare), pubblicato da Balance Buch Medien, ha stilato un formulario. «Non si tratta di domande in grado di sostituire una consulenza o una terapia. In ogni caso, ecco le principali: fatico a svolgere il mio lavoro quotidiano?; mi preoccupo di ogni cosa e sono molto ansioso?; soffro di disturbi fisici?; mi sento spesso aggressivo, colmo di odio, nervoso o sono estremamente intollerante?; ho pensieri suicidi?; questa condizione dura da più di tre mesi? Più risposte affermative si danno, più è probabile che sia necessaria una psicoterapia».