Possiamo apprezzare un film, un libro o un dipinto se il suo autore si rivela una cattiva persona? Non semplicemente un arrogante, maleducato ed egoista – come raccontano le biografie di decine di artisti –, ma qualcuno il cui comportamento è immorale oppure, addirittura, illegale?
Claire Dederer, autrice statunitense fuori dalle righe, particolarmente apprezzata dalla critica anglosassone, cerca di rispondere a queste domande nel suo ultimo libro, appena uscito in inglese, Monsters: A Fan’s Dilemma (Mostri: il dilemma di un’ammiratrice). Prendendo le mosse da un suo saggio, diventato virale, pubblicato nel 2017 su «The Paris Review», intitolato Cosa fare con l’arte degli uomini mostruosi?, Dederer approfondisce il discorso, mescolando critica, filosofia, storia e narrazione personale.
È possibile scindere l’opera dall’artista? Il dubbio attanaglia l’umanità da qualche secolo. La riflessione, in merito, è diventata più impellente dopo la consapevolezza acquisita a livello collettivo negli ultimi anni, anche in seguito all’impatto dei movimenti femministi internazionali. Il principale dei quali è stato il #MeToo, che ha svelato i meccanismi dietro a certi sistemi di potere maschile basati sulla violenza.
Claire Dederer prende in considerazione il lavoro di artisti dalla condotta moralmente deprecabile e riflette sul legame tra genio e mostruosità. Si domanda se sia davvero necessario riconsiderare i nostri gusti sull’arte, sulla letteratura e sul cinema, sulla base delle malefatte nella vita privata di personaggi che sono stati, però, capaci di creare opere grandiose.
L’enigma più difficile da risolvere per Dederer riguarda due famosi registi cinematografici: Roman Polanski e Woody Allen. Il primo è stato coinvolto in una complessa vicenda giudiziaria, iniziata oltre quarant’anni fa (in seguito alla quale ha lasciato gli Stati Uniti), per violenza sessuale su una minorenne, con altre accuse di abusi arrivate nel corso del tempo. Il secondo, invece, ha intrapreso una relazione con la figlia adottiva della sua ex compagna Mia Farrow e alla fine l’ha sposata. Il rapporto tra Allen e Soon-Yi Previn è analizzato con particolare attenzione da Dederer, che da bambina era molto affezionata al fidanzato della madre, con il quale ha tuttora un legame di fiducia e rispetto. La prospettiva che un sentimento di riguardo come il loro possa venire snaturato e sessualizzato, le provoca disgusto.
I «mostri», spiega l’autrice, «sono accusati di aver fatto o detto cose orribili, e allo stesso tempo sono stati capaci di realizzare qualcosa di grandioso». La conoscenza dei fatti orrendi non può essere facilmente messa da parte dal pubblico, come poteva accadere un tempo. «Una volta la biografia era qualcosa che si cercava, desiderava e inseguiva attivamente. Ora ci cade addosso tutti i giorni».
Monsters: A Fan’s Dilemma si colloca nel contesto americano degli ultimi dieci anni, culminato perfino con la messa in discussione di alcuni testi classici e l’idea di doverli mettere al bando oppure di riscriverli, in certe parti. La temperie culturale è stata chiamata «cancel culture» (cultura della cancellazione), termine che non piace a Dederer perché lo trova fuorviante. In diverse interviste, spiega che in questo momento storico stiamo mettendo in dubbio un ordine costituito che per secoli è stato intoccabile. Nonostante ci siano degli effetti negativi, «è fondamentale che le persone siano in grado di raccontare se sono state vittime di violenza».
Il punto centrale, però, deve restare la nostra risposta soggettiva alle opere artistiche. Ognuno deve essere in grado di poter scegliere di usufruire comunque di un film, un libro oppure un quadro, senza che ci siano diktat esterni.
Dederer non ne fa una questione soltanto maschile. Include, infatti, anche le donne nella sua disanima. Sostiene che nel creare l’arte, le donne possono rivelarsi «una sorta di mostri», nonostante le loro azioni coinvolgano soltanto una certa sfera della loro esistenza, in genere la loro identità di madri. Chi ha mai sostenuto che non dovremmo apprezzare Doris Lessing perché ha lasciato due dei suoi figli in Sudafrica quando si è trasferita in Inghilterra per scrivere? Oppure che Sylvia Plath dovrebbe essere eliminata dai programmi scolastici perché, togliendosi la vita, ha traumatizzato il figlio e la figlia che dormivano nella stanza accanto? Nel libro, si legge: «L’artista deve essere abbastanza mostruoso non solo per iniziare il lavoro, ma anche per completarlo. E per commettere tutte le piccole efferatezze che si trovano nel mezzo».
E Dederer mette perfino sé stessa al centro della critica. Riconoscere le proprie piccole crudeltà, come «lasciarsi alle spalle la famiglia, sistemarsi in una capanna presa in prestito o in una stanza di motel affittata a poco prezzo», è importante per individuare il proprio potenziale di mostruosità. Pagina dopo pagina, tenta di risolvere l’insolvibile, resistendo contemporaneamente alla semplificazione e all’auto-illusione. Costellato di aneddoti personali, l’approccio dell’autrice irradia umanità o, per usare altri termini, soggettività. Nel libro la scrittrice fa proprio riferimento a una frase di Donna Haraway, «l’oggettività è un trucco di Dio», puntualizzando immediatamente che, invece, «la soggettività è un trucco umano».
Non c’è il tentativo di difendere i mostri. Così come volere bene alle persone della nostra vita ci costringe a fare i conti con i loro fallimenti – anche quelli impossibili da accettare –, amare l’opera di chi ha comportamenti particolarmente problematici significa andare al cuore dell’esperienza umana. «Il bisogno di accettare i tracolli di un’altra persona, e la totale impossibilità di giustificarli, è alla base di tutto», riflette Dederer. E ricorda la volta in cui un suo amico le ha confidato il suo complicato rapporto con il padre. L’uomo aveva causato un dolore infinito al figlio che, nonostante tutto, non ha mai potuto fare a meno di amarlo.