Nell’era digitale in cui viviamo, costellata da un ininterrotto susseguirsi di like, pollici, stelline, commenti, che significato ha ancora l’espressione «mi piace»? Quanto veniamo condizionati dai «suggerimenti» degli algoritmi e quanto siamo capaci di decidere di testa nostra? Che cosa ci porta a scegliere, tra centinaia (in certi casi addirittura migliaia) di possibilità, un libro, una canzone, un film, un vestito, un paio di scarpe? A queste domande cerca di rispondere Tom Vanderbilt, giornalista e scrittore bestseller americano (tra i vari riconoscimenti, ha ottenuto il Warhol Foundation Arts Writers Grant), nel suo ultimo libro Ti potrebbe anche piacere: il gusto nell’epoca delle scelte infinite (You May Also Like: Taste in an Age of Endless Choice), pubblicato in inglese dalla casa editrice Knopf, del colosso Penguin Random House.
Vanderbilt indaga i meccanismi psicologici e culturali che regolano le preferenze con interviste a neuroscienziati, sociologi, filosofi, ingegneri informatici. Entra all’interno di società come Netflix, Pandora e Spotify, i cui modelli di business dipendono dall’abilità di prevedere accuratamente i gusti dei consumatori. Già altri autori – per citarne alcuni: Barry Schwartz, professore di Psicologia al Swarthmore College negli Usa; Renata Salecl, sociologa e filosofa, che tiene corsi in Slovenia, a New York e a Londra; Sheena Iyengar, docente alla Columbia Business School – hanno studiato il modo in cui ci comportiamo di fronte alle molte opzioni che ci troviamo davanti ogni giorno.
«Non c’è una singola spiegazione per il modo in cui si formano i nostri gusti, anche se il condizionamento sociale è molto importante. Nelle società primitive si guardava a quello che consumava il vicino, e se non moriva, significava che si poteva imitare. Adesso è tutto decisamente più complesso, è il prestigio che conta, più che la funzionalità. A volte procediamo per emulazione, ma i nostri gusti si formano anche in contrasto a quelli degli altri. In ogni caso non ci sono regole valide in assoluto» spiega Vanderbilt ad «Azione». Preferiamo quello che ci è familiare, anche se a volte ci stanchiamo e vogliamo qualcosa di nuovo, ci facciamo influenzare dai pareri degli amici, dalle mode, e nella maggior parte dei casi non sappiamo spiegare esattamente perché ci piace qualcosa.
Il gusto è anche una questione di abitudine: un processo descritto nel 1968 dallo psicologo Robert Zajonc come «effetto della mera esposizione». Con questa definizione si intende che l’esposizione ripetuta a un oggetto dà come risultato una maggiore attrazione nei suoi confronti. Esempi sono bevande come il caffè e la birra: difficile che a qualcuno siano piaciute ai primi sorsi, eppure bevendole per più di una volta ci si dimentica dell’impressione iniziale.
L’idea che qualcosa che non ci piace subito ci possa piacere con il tempo non è poi così strana, dato che entrambe le sensazioni attivano le stesse aree del cervello, tra le quali l’amigdala, considerata il centro di integrazione di processi neurologici superiori come le emozioni. «C’erano cose che non sopportavo e che invece adesso apprezzo. Ho cambiato gusti e credo che tutti noi abbiamo esperienze simili – continua il nostro interlocutore – Molte nostre decisioni sono guidate dall’inconscio. Ci sono numerosi fattori periferici che entrano in gioco per quanto riguarda ciò che ci piace e che non ci piace. Nel 1999 dei ricercatori hanno fatto un test a una fiera in Germania. Hanno fatto assaggiare lo stesso identico tipo di ketchup a un gruppo di persone, con la differenza che in un campione hanno aggiunto un lieve gusto di vaniglia, usata nei cibi per l’infanzia. Le persone che, da piccole, non erano state allattate al seno, ma con il latte in polvere, preferivano il ketchup modificato, perché inconsciamente avevano una predilezione latente per la vaniglia.
I nostri cervelli tendono a concepire quello che ci circonda all’interno di una serie di schemi: produciamo in continuazione modelli predittivi del mondo e poi verifichiamo se la realtà corrisponde. Procediamo inserendo le cose all’interno di categorie. Ad esempio, se qualcuno vi mostrasse la foto di alcune fabbriche tedesche in rovina degli artisti Bernd and Hilla Becher, chiedendovi se pensate che sia bella, probabilmente rispondereste in base al modo in cui l’avete categorizzata. È bella in sé? Oppure per il pathos che trasmettono le rovine? Per il suo essere in bianco e nero? Qualcuno che magari preferisce tramonti e fiori, non si ritroverà in questo modello di bellezza. Quindi quando pensiamo a qualcosa, invece di chiederci se è bello, dovremmo domandarci piuttosto è bello rispetto a cosa?».
Una complessità che non riesce ad essere condensata nei like che ogni giorno usiamo sui social network. «Se mettiamo mi piace a una foto di Instagram lo facciamo perché ci piace effettivamente l’immagine, oppure per via della persona che l’ha postata? In genere, siccome gli essere umani tendono di base a conservare le energie quando è possibile, mettiamo il like a quello che già conosciamo, ci rende la vita più semplice. Lo stesso vale per le migliaia di scelte che ci offre la rete: molti preferiscono continuare ad ascoltare la musica che già conoscono invece di scoprirne di nuova. Oppure anche se scegliamo qualcosa di diverso, lo facciamo in base ai gusti che già abbiamo, entrando in un circuito di feedback che non ci fa mai conoscere qualcosa di veramente nuovo. Gli algoritmi, che sono l’espressione matematica delle nostre scelte precedenti, funzionano proprio sulla base di questo principio».
È davvero difficile riuscire ad essere pienamente consapevoli dei propri gusti. «Probabilmente dovremmo renderci conto che molte delle cose che ci piacciono e che pensiamo essere alla base della nostra personalità, forse non sono così importanti quanto crediamo. Ci sono cose che forse ci potrebbero piacere di più, ma che non proviamo semplicemente perché pensiamo già in partenza che non siano adatte a noi».