Viviamo in un mondo sempre più globalizzato e complesso. Essere in grado di adattarsi a questa realtà significa sviluppare gli strumenti per capire gli altri, mettersi nei loro panni, comprendere le scelte che fanno e le difficoltà che affrontano. Ma per riuscirci, dobbiamo prima di tutto conoscere noi stessi. Così sostiene un recente studio intitolato Know Thy Selves: Learning to Understand Oneself Increases the Ability to Understand Others (Conoscersi: imparare a capire se stessi aumenta l’abilità di capire gli altri) pubblicato sulla rivista Cognitive Enhancement, fondata nel 2016, che si occupa, con approccio interdisciplinare, di neuroscienze, psicologia, sociologia, con temi che vanno dalla meditazione, ai video giochi, passando per la musica e le smart drugs (sostanze psicoattive che migliorano l’apprendimento).
La ricerca, coordinata da Anne Böckler, docente di Psicologia cognitiva all’università tedesca di Würzburg e ricercatrice al Max Planck Institut, in collaborazione con i colleghi Lukas Herrmann e Tania Singer, dimostra che è possibile migliorare la capacità di conoscere noi stessi e quindi gli altri attraverso esercizi che influenzano il modo in cui ci relazioniamo con la nostra parte interiore. Come spiega ad «Azione» la professoressa Anne Böckler, «distanziarci dal nostro punto di vista e adottare ipoteticamente la prospettiva di qualcuno diverso da noi, non è facile. Se ci impegniamo con regolarità a considerare quello che le persone potrebbero pensare, volere o sapere, possiamo però affinare la nostra abilità. Allo stesso modo, se cerchiamo di capire quello che vogliamo, pensiamo o decidiamo nelle diverse situazioni, possiamo perfezionare la capacità di astrarre da una situazione momentanea, osservando i meccanismi della nostra mente nel loro complesso. Questo è quello su cui si è basato il nostro training».
Per tre mesi i ricercatori hanno usato diversi metodi per insegnare a due gruppi, di ottanta e ottantuno partecipanti, tra i venti e i cinquantacinque anni, come sviluppare le capacità per comprendere pensieri, credenze, sentimenti e prospettive. Il training si è ispirato alla terapia dei Sistemi familiari interni, ideata negli anni Novanta da Richard Schwartz, che identifica e affronta molteplici schemi di riconoscimento di quello che avviene dentro di noi. Tra questi, ad esempio, «il giudice interiore», un insieme di pensieri di autocritica che causano ansia, senso di fallimento e comportamento perfezionista. Abituandosi a considerare la prospettiva delle diverse parti di sé, si diventa mentalmente più flessibili e ci si allena nell’esercizio dell’immedesimazione. Così è successo ai partecipanti dell’esperimento tedesco: hanno imparato a esplorare la propria complessità, soffermandosi sugli aspetti negativi. E proprio il riconoscimento delle parti non positive è risultato fondamentale nel processo.
«Quando interagiamo con qualcuno, se ci troviamo a conversare con un collega, se parliamo di combattere il cambiamento climatico, oppure se stiamo facendo qualcosa di pratico, come trasportare un divano, è rilevante non solo quello che pensiamo, sappiamo o preferiamo, ma dobbiamo anche considerare il punto di vista dell’altra persona» dice Böckler. «Questo processo di deduzione e ragionamento sugli stati mentali esterni è chiamato Teoria della mente ed è necessario per avere interazioni soddisfacenti. La conversazione diventerà imbarazzante se non ci ricordiamo che il nostro collega ignora che noi sappiamo che ha appena divorziato, la discussione sul clima non avrà successo se non consideriamo la prospettiva di chi subisce maggiormente gli effetti negativi del riscaldamento globale, il divano cadrà se non indoviniamo che chi ci sta aiutando a trasportarlo ha in mente di inclinarlo prima di passare da una scalinata stretta. Se non siamo capaci di immedesimazione, non possiamo prevedere le azioni di chi ci è vicino e di conseguenza pianificare le nostre».
Non c’è un solo modo per riuscire a «uscire» da noi stessi. Avere condiviso esperienze simili con qualcuno, sicuramente aiuta. Esiste poi l’empatia, una strada socioaffettiva, secondo la psicologia, che significa «sentire con» l’altra persona, provando le sue emozioni e sentimenti. Ma mentre l’empatia è spontanea, e non è sviluppata in tutti allo stesso modo, esistono delle tecniche che si possono imparare. Tra queste c’è, appunto, la Teoria della mente, un processo sociocognitivo che richiede sforzo ed esercizio.
Il team di ricerca dell’università di Würzburg ha impiegato, per la ricerca, anche tecniche di neuroimmagine, come risonanza magnetica e Tac, che servono per studiare il cervello in modo non invasivo, evidenziandone anatomia e funzioni. Da questi esami si è visto che sia quando pensiamo a noi e ai nostri stati mentali, sia quando consideriamo quelli altrui, attiviamo aree simili del cervello. Secondo Böckler, il risultato dimostra che processi simili vengono coinvolti nella comprensione di noi stessi e del mondo esterno. Mancano ancora dei tasselli nella dimostrazione scientifica della reciprocità dei due meccanismi, ma lo studio va in questa direzione. E non si ferma qui. Il passaggio successivo sarà capire come il training ideato per l’esperimento possa venire usato nelle scuole e negli ambienti di lavoro. «La nostra società è concentrata sul fatto che dobbiamo essere forti, avere successo, essere assertivi» conclude Böckler. «Magari, invece, potrebbe essere arrivato il momento di cambiare attitudine e impiegare più enfasi nel perfezionare la nostra abilità di metterci nei panni delle persone che ci circondano. Invece di essere concentrati su noi stessi, potremmo impegnarci a essere socialmente più competenti. Potremmo diventare, ad esempio, dei compagni di scuola e dei colleghi di lavoro migliori, capaci di buone interazioni».