Il caffè delle mamme stavolta inizia con un’autodenuncia: ho letto La famiglia digitale di Vittorino Andreoli (ed. Solferino, 14 gennaio 2021) con la speranza di vedere spazzati via i miei timori, invece ci ho trovato una conferma autorevole. Dunque, d’ora in avanti potrò dire ai miei figli Clotilde ed Enea, 12 e 7 anni, che non lo dice solo la mamma (accusata di essere fuori tempo, romantica e troppo sensibile persino dal marito), ma anche uno psichiatra di fama internazionale, membro della New York Academy of Sciences e autore di numerosi libri di successo. Ovviamente la mia frustrazione è tutta rivolta contro l’uso spasmodico di smartphone e tablet. Una battaglia che voglio vincere a costo di risultare l’ultima dei moicani. Perché, come ben spiega Andreoli, l’incursione incontrollata della tecnologia può trasformare una famiglia da un insieme a una somma dei suoi componenti. Ecco come.
Il silenzio. Con il cellulare e l’iPad ormai diventati un’appendice del corpo, lì maledettamente sempre in mano, sulle ginocchia, sul bracciolo del divano, in famiglia piomba il silenzio: «Quando tutto è riversato su ciò che lo smartphone sta dicendo o su ciò che ci si aspetta di ricevere – scrive Andreoli – c’è un blocco sia dell’espressività verbale che della mimica». Sembra incredibile, ma il fracasso – e perfino i litigi fra fratello e sorella – a questo punto diventano un’opzione migliore!
Il mutismo. Il silenzio rischia di trasformarsi in mutismo. Ossia nell’impossibilità di comunicare. «Vi sono i sorrisi, i gesti che sembrano poco significativi, ma che invece sono quelli in grado di trasferire energia e creare un’atmosfera che sa persino di sacralità e di intimità – sottolinea lo psichiatra –. Un ambiente dove ci si sente capiti, perché si capisce l’altro. Per questo servono persone legate affettivamente e non statue che tengono in mano l’ultimo modello di smartphone».
La difficoltà di scambiare notizie e racconti. Il passo successivo è «la mancanza di disponibilità a scambiare in famiglia notizie e racconti di quanto è accaduto, la possibilità di dare uno spazio e un tempo ai propri affetti senza essere al contempo collegati al telefonino».
Concorrenza sleale. Per Andreoli viene a crearsi una concorrenza tra la rete familiare, ordinaria e persino banale, e quella digitale, che ha la caratteristica di presentare continue novità. Il bisogno che ciascun familiare ha del telefonino sembra capace di chiudere i canali relazionali con gli altri componenti. Il caffè delle mamme difende, invece, strenuamente il modello di famiglia dove «ognuno deve potersi raccontare, esprimere i propri dubbi, rendere partecipi gli altri della propria gioia e trasmettere talora il proprio dolore».
La voglia di abbracci. «Si ha voglia di abbracciare, mentre tutti sono ricurvi sul proprio smartphone, fuori dal mondo»: lo scrive Andreoli, che peraltro è anche un uomo e dunque meno propenso alle smancerie. Finalmente a Il caffè delle mamme posso rivendicare senza vergogna la mia voglia di contatto fisico anche nell’epoca dei contatti virtuali. Del resto, come ben sottolinea lo psichiatra, «è uno sbaglio credere che la famiglia sia un dato scontato e che non abbia bisogno di essere alimentata dalla viva partecipazione dei suoi componenti». Com’è possibile accettare di condividere una stanza con la persona a cui vuoi bene ma che è come non ci fosse? È una situazione che ricorda il supplizio di Tantalo, che non può bere e vede l’acqua a portata di mano. «Soffro e mi indigno di fronte alla possibilità che un ragazzo abbandoni le attenzioni e i sentimenti verso il piccolo mondo in cui si trova per dedicare il proprio tempo alla virtualità – scrive Andreoli –. Compie un “furto” di funzioni umane necessarie a vivere, riversandosi sulla rappresentazione di un mondo che non esiste. Non è molto diverso da ciò che accade con una droga, con una sostanza cosiddetta stupefacente: una polvere a cui si riduce tutta la ricchezza di un uomo e la bellezza del mondo che abita».
Scenario apocalittico. Vittorino Andreoli scrive: «Quando torni a casa e tocchi il mondo concreto, non quello chiuso in un chip, trovi tua madre un po’ stanca, un poco depressa, che ti aspettava perché le raccontassi qualcosa di te, perché ha solo te e i suoi sogni sono fatti di te. E tu, solo a guardarla, vorresti aver sbagliato casa. Allora tiri fuori lo smartphone, vai dai tuoi follower, nella pagina web, e stabilisci relazioni con chi non c’è, in un mondo che non esiste: una fuga allucinata dal luogo dove invece sei necessario, perché lì c’è tua madre che si è prodigata a fare per te l’impossibile anche se non ha potuto prepararti quello che sognava, ma l’ha solo immaginato. In questa macchina dei desideri, del delirio e della finzione non c’era e non trova posto tua madre». A Il caffè delle mamme non ci riconosciamo in questo scenario apocalittico, che pur ha motivo d’essere: siamo mamme realizzate professionalmente e non che devono realizzarsi attraverso i propri figli. Eppure, riunite finalmente a Milano nei tavolini all’aperto di un bar, rivendichiamo con forza il desiderio di non avere una famiglia digitale che sa tanto di requiem degli affetti, ma semplicemente una famiglia.
L’obiettivo quotidiano resta quello di convincere i nostri figli che spegnere lo smartphone non vuol dire ritrovarsi staccati dal mondo, chiusi in una sorta di torre, senza finestre sulla vita, bensì iniziare a vivere davvero la famiglia. «Identificarsi nel proprio io oppure nel noi? – riflette Andreoli –. Personalmente, ciò che mi ha sempre affascinato è la terza possibilità, quella di prendere in considerazione gli altri e, di conseguenza, di dedicarmi a loro. Non viene annullato il mio io, ma è coniugato a e per gli altri». È triste, se non drammatica, la tendenza a definire l’assetto della famiglia in cui l’uso dello smartphone è libero come famiglia aperta, tollerante, non autoritaria. Non è la verità: il vero rischio è piuttosto di «una famiglia che si riduce a un luogo occupato da individui che non hanno nulla di comune». E a Il caffè delle mamme faremo di tutto pur di non averla così! Certo, ci vuole un grande impegno. E il rischio di incorrere nell’accusa del marito: «Sei troppo radicale!».