Come sta di salute il Ticino? Il Cantone ha raddoppiato la sua popolazione negli ultimi settant’anni. Mentre dal 2016 siamo di fronte a un calo demografico: 354’375 abitanti cinque anni fa, 351’389 lo scorso giugno. Il tema diventa virale. C’è chi propone di nominare un mister demografia o chi invoca l’immancabile task force. Intanto, incominciamo a elencare i difetti del Ticino che potrebbero spiegare, in parte, il calo demografico. Stipendi decisamente sotto la media svizzera (dal 20 al 40%), ma prezzi pressoché identici: basta guardare quanto costa una casa unifamiliare. Città che offrono poco o niente per i giovani, vedi le recenti osservazioni su Lugano del rettore dell’USI Boas Erez. Scarso spirito imprenditoriale degli indigeni. Mancanza di asili nido e di strutture a favore delle famiglie. E l’elenco potrebbe continuare.
Il calo demografico esiste, ancorché non drammatico, e Coscienza Svizzera (CS), gruppo di studio e di riflessione, ne ha discusso nel Convegno «Sfida demografica: il malessere del Canton Ticino». Il tema è stato affrontato da diversi punti di vista: anziani, famiglia, lavoro, territorio, immigrazione e giovani, ponendo l’accento su quella che viene definita la «fuga dei cervelli». I termini hanno la loro importanza e forse non bisognerebbe enfatizzare. I giovani si spostano da sempre dal Ticino per studiare, anche se c’è l’USI, e non solo. Il mondo negli ultimi decenni si è rimpicciolito. Le comunicazioni e le relazioni sono più facili, la globalizzazione ha avvicinato paesi lontani e molti giovani si muovono per il piacere di cambiare e di scoprire.
Questa decrescita è grave? «Dipende dalle cause del calo demografico. – ci spiega Elio Venturelli, ex capo dell’Ufficio cantonale di statistica, relatore al Convegno – La forte crescita della popolazione del dopoguerra è legata all’immigrazione di manodopera stagionale e dimorante, e al ricorso al frontalierato, per la realizzazione delle grandi infrastrutture, gallerie autostradali e ferroviarie, dighe, scuole, ecc.: in genere manodopera poco qualificata. Ogni qualvolta che c’è stata una crisi economica, come ad esempio negli anni 90, l’immigrazione è calata drasticamente, generando un calo dei residenti e, parallelamente, anche un calo del numero di frontalieri. La recente decrescita, oltre a manifestarsi solo in Ticino e nel canton Neuchâtel, parallelamente al forte calo di giovani immigrati, ha visto aumentare invece il numero di frontalieri. Si tratta di un fenomeno nuovo, tutto da interpretare».
Questa strana forbice – meno residenti stranieri e più frontalieri – come si spiega? «Non sono in grado, proprio per mancanza di statistiche, di dire se c’è un effetto di sostituzione oppure se è il risultato di tendenze indipendenti: crisi nel comparto a basso valore aggiunto, sviluppo di un frontalierato molto qualificato? È abbastanza demoralizzante non riuscire a capire le tendenze in atto. Mi chiedo come i politici riescano a prendere delle decisioni in un simile contesto».
Un fattore strutturale all’origine del calo demografico attuale è il saldo naturale negativo degli svizzeri. È un dato assodato: si fanno meno figli. Inoltre, da una decina di anni, sono aumentate le partenze, soprattutto dei giovani svizzeri della fascia di età tra i 20 e i 39 anni. Per i giovani si parla di «fuga di cervelli». Come la valuta Venturelli, che già nel 2015 mise in rilievo l’esodo dei giovani? «Il comparto giovani è un tassello di un quadro socio-economico interconnesso. Un approccio sistemico e intergenerazionale è inevitabile. Oggigiorno i giovani di tutta Europa migrano per studiare, perfezionarsi, conoscere nuove realtà. Lo fanno pure i giovani ticinesi anche, ma non solo, per studiare. Il Ticino però è un triangolo di Svizzera in Lombardia. Oltrepassare il Gottardo li mette a confronto con realtà linguistiche, economiche e culturali completamente diverse. Il rientro in Ticino non è evidente, tanto più che il mercato del lavoro non è molto attrattivo, in particolare tenuto conto delle condizioni salariali sfavorevoli. Se fino alla fine degli anni 80 il saldo tra arrivi e partenze era positivo, in seguito si è passati a valori sempre più negativi. Il cambiamento di tendenza è sicuramente legato alla struttura economica cantonale. In questi ultimi anni si parla molto dell’importanza dello sviluppo che sta avvenendo nel nostro cantone di centri di eccellenza, di ricerca all’avanguardia, degli sviluppi di USI e SUPSI. Sforzi lodevoli che dovrebbero caratterizzare il Ticino del futuro. Per il momento, per quanto ne so, i ticinesi nei posti prestigiosi sono in minoranza. È un problema di formazione che il Ticino non può offrire, vista l’esiguità del contesto? A questi livelli di qualifica non penso sia un problema salariale».
A proposito di mercato del lavoro, se assistiamo a una «fuga», va registrato anche un «arrivo». Basta frequentare i nostri ospedali per sincerarsi che senza la manodopera qualificata italiana, confederata o straniera, il sistema sanitario ticinese collasserebbe. E anche il mondo della scuola vede da anni un numero crescente di italiani, basta aggirarsi alla SUPSI o all’USI, ma anche alle scuole medie o nei licei.
Oggi, in Ticino, il 30% degli occupati è frontaliere. Nel 2002 era il 17%. Che posti occupano? Fino a una trentina di anni fa era chiaro: fabbriche ed edilizia. Ora anche il terziario, ma in che misura?«Senza un’informazione esaustiva sulla struttura delle aziende, – precisa Elio Venturelli – collegata con la dinamica del mercato del lavoro, non riusciamo a capire le trasformazioni in atto. Con la rinuncia, nel 2000, a effettuare il censimento della popolazione, sostituendolo con l’armonizzazione dei registri amministrativi, abbiamo perso molte informazioni capillari. Se la diminuzione della popolazione è dovuta alla presenza di aziende molto tecnologizzate e che quindi necessitano di poca manodopera, ma molto qualificata, allora questo rovesciamento di tendenza non può che essere considerato positivo. Per il momento, l’unica cosa certa è che il Ticino è un cantone che manca da sempre di imprenditorialità. Non sono io che lo dico, ma molti studiosi, in primis Angelo Rossi. Un repentino cambiamento andrebbe perlomeno documentato e inserito in un contesto generale».
Gian Paolo Torricelli, dell’Osservatorio dello sviluppo territoriale, intervenuto al Convegno di CS, ha messo in luce che la demografia del Ticino è assimilabile a quella della vicina Italia, piuttosto che al resto della Svizzera. Se la sfida è cercare nuovi residenti, ha detto, bisogna attirare imprenditorialità, non imprese. Bisogna offrire politiche sociali più incisive, che attirino la popolazione giovane e ha affermato, toccando un tema quasi tabù, che «non dovremmo aver paura di chiudere ditte che impiegano soltanto personale frontaliere».
Lo storico Marco Marcacci ha ricordato che da sempre il Ticino è paese di emigrazione e di immigrazione. All’inizio del Novecento era rilevante l’immigrazione confederata e i nostri politici temevano un intedeschimento del cantone. Poi l’immigrazione italiana ha preso il sopravvento senza che venisse mai considerata una risorsa. In definitiva, oggi, il Ticino è italianizzato. «In Ticino – ha detto Marcacci – non si è mai veramente creduto nell’immigrazione quale strumento per lo sviluppo della popolazione. E, a dire il vero, sembra che anche oggi si pensi piuttosto di risolvere la crisi demografica impedendo le partenze dei ticinesi o rimpatriando i cervelli emigrati all’estero o nel resto della Svizzera».Anche Rosita Fibbi, dell’Università di Neuchâtel, dopo aver analizzato la mobilità dei migranti, ha concluso il suo intervento invitando a promuovere una politica dell’accoglienza dei residenti stranieri, ripensando l’immigrazione nel quadro di una race for talent, una gara di talenti. Inoltre, Fibbi propone di sviluppare «una narrativa di accoglienza dei residenti stranieri, dei lavoratori e delle loro famiglie, nell’interesse generale, accantonando approcci stigmatizzanti della presenza immigrata».
Elio Venturelli non guarda solo ai numeri. Le sue osservazioni finali all’incontro di Coscienza Svizzera non sono rosee. «Durante il Convegno – ci dice – tutti hanno auspicato un Ticino dell’innovazione, che attiri giovani qualificati, ticinesi o meno. Non posso che essere d’accordo con questi auspici e le premesse ci sono: Officine a Bellinzona, centri universitari e di ricerca avanzata, ecc., progetti che si stanno fortunatamente concretizzando. Le mie esitazioni si riferiscono alle modalità con le quali il Ticino ha realizzato negli ultimi decenni la sua ricchezza. Un Ticino che ho definito “dai soldi facili”, riferendomi alla svendita del territorio, ai Casinò, alla prostituzione, al riciclaggio, alla speculazione immobiliare, alla mafia, ecc. Contro queste modalità, insite nei cromosomi di una determinata fascia della popolazione, che paragonerei a dei virus, bisognerebbe trovare un antidoto per evitare che il nostro territorio non sia terra di conquista per imprenditori attirati solo dalle facilitazioni fiscali e dai bassi salari, ma intenzionati a mettere radici nella nostra realtà».
Il nostro interlocutore sottolinea a più riprese l’impellente necessità di indagare sulla situazione ticinese. Chi fa che cosa? Chi va e chi viene: dove e perché? USI, SUPSI, IRE, USTAT: vale a dire Università, Scuola universitaria, Istituto di ricerche economiche, Ufficio di statistica: abbiamo un po’ po’ di ricercatori che dovrebbero e potrebbero colmare questa lacuna. Dati certi sullo stato dell’economia e della società sono preziosi, anche perché possono ammutolire pregiudizi e facili speculazioni politiche infondate.