Non a tutti la digitalizzazione piace. Forse perché non la si capisce fino in fondo e dunque le implicazioni del suo avvento sul lungo termine ci appaiono imponderabili. Ma vi è anche chi ne è affascinato, riconoscendone l’indispensabile opportunità, e chi desidera capirla, al fine di stimolare un’interazione umano-macchina sempre più proficua. Ne abbiamo parlato con Paolo Costa, docente universitario, amante di arte e letteratura, appassionato di tecnologia e fondatore di società di consulenza e di startup in ambito tecnologico che collaborano con il Dipartimento di Nuove tecnologie della SUPSI di Manno.
Paolo Costa, parliamo dell’inarrestabile potenziamento della digitalizzazione in ogni ambito… ormai è coinvolto anche il mondo dell’arte. Chi non capisce rimarrà indietro?
Credo sia doverosa una premessa… Neppure io capisco (scoppia a ridere), e forse ciò che rende questo processo affascinante è che è ancora tutto da capire. Spesso si approfitta della scarsa competenza della maggior parte dell’opinione pubblica per pretendere di spiegare come va il mondo del digitale, ma secondo me, in un’ottica di etica della comunicazione, bisognerebbe ammettere che non si sa come andrà a finire. Sarebbe giusto dire «staremo a vedere», e questo in fondo rende tutto meno noioso.
In attesa di risposte si può tentare qualche ragionamento, ma soprattutto occorre farsi le domande giuste. Il discorso della tecnologia non dovrebbe essere lasciato in mano solo ai tecnologi, ma, al contrario, richiede un approccio umanistico. E ciò vale ancora di più quando ci occupiamo di intelligenza artificiale, fenomeno le cui implicazioni sulla vita sociale e su una dimensione estetica ed etica della nostra esistenza sono sotto gli occhi di tutti. Volendo parafrasare il famoso detto secondo cui il sonno della ragione genera dei mostri, potremmo affermare che il sonno della ragione umanistica genera mostri tecnologici. La ragione umanistica ha dormito a sufficienza e sarebbe bene che si svegliasse e cominciasse a occuparsi di certe cose, affinché non restino in mano ai tecnologi.
Lei come guarda alla digitalizzazione?
In ambito digitale vedo due movimenti che si manifestano in parallelo. Il primo movimento lo definirei riduzionistico, poiché si tratta del digitale che cerca di spiegare il mondo riducendone la complessità: i fenomeni complessi (le nostre vite, le nostre biografie) diventano set di dati. Questa è la «datizzazione del mondo», così come declinata dalle grandi piattaforme come Facebook e Google, che utilizzano sistemi di intelligenza artificiale, quindi, tecniche di classificazione basate su algoritmi più o meno complessi di machine learning che permettono di riconoscere le immagini, filtrare i contenuti, eccetera. Il mondo intero viene fagocitato da modelli di apprendimento automatico che necessitano di una prospettiva semplificata.
Per quanto noi ci ostiniamo a chiamarla «intelligenza artificiale», questa non è né intelligente né tantomeno artificiale. Soprattutto non è intelligente, poiché non è in grado di recepire la complessità della vita, e quindi per potere reagire ha bisogno della riduzione della complessità: solo così potrà classificare il me-utente, associarmi a un certo cluster e propormi determinati contenuti. La semplificazione porta però a una perdita di informazioni… e se fosse importante proprio quello che si perde?
Vi è poi un secondo movimento, che non saprei bene come definire. Credo che esso rappresenti un percorso in cui la tecnologia, l’arte e i tentativi di descrivere il mondo finiscano per incontrarsi, senza contraddizione. Uno può chiedersi cosa c’entrino i modelli matematici o gli algoritmi di machine learning con l’arte, ma l’intelligenza artificiale pensa un mondo e dobbiamo chiederci quanto esso sia distante dalle espressioni della sensibilità artistica. Il digitale rappresenta dunque l’occasione per estendere le nostre possibilità espressive, mescolando immagini, parole, e suoni. A questo proposito prendiamo l’esempio delle scritture brevi ed estese, sempre più presenti su diverse piattaforme: milioni di persone trovano possibilità espressive che si traducono in manifestazioni in cui noi non riconosciamo più i tradizionali generi letterari. Lo stesso discorso vale per la crypto art: oltre alla speculazione vi sono anche espressioni di arte digitale di qualità e valore che possono trovare sbocco proprio nel circuito degli NFT (Non-Fungible Token, certificati di proprietà digitali creati su piattaforme blockchain). Poiché nell’arte vi sono degli attori che controllano i flussi e governano gli scambi, la crypto art permette la circolazione di opere interessanti di giovani artisti che altrimenti non conosceremmo.
Ma come si riconoscono valore e creatività?
Occorre fare uno sforzo di conoscenza. Siamo agli inizi di questo percorso che ci porta a identificare i tratti di nuove forme espressive e a capire quando queste si manifestino a un livello alto. Noi abbiamo una sorta di grammatica che oggi ci consente di dire chi è stato davvero grande in passato. Ora siamo alla ricerca di una grammatica nuova che ci aiuti a valutare nuove forme espressive e a riconoscerne la maggiore o minore qualità. Non è la prima volta che siamo alle prese con delle fratture simili nel campo dell’arte. Pensiamo a cosa ha prodotto l’avvento di media come la fotografia e il cinema… la reazione di Charles Baudelaire contro la fotografia e in difesa dell’arte tradizionale, della vera arte, fu molto veemente. La rapidità della fotografia (anche se ci volevano sei ore di esposizione!) destava sospetto. Qualche decennio più tardi Benjamin, che della fotografia era innamorato, rilesse gli scritti di Baudelaire sulla fotografia. Quindi, se Benjamin dice che l’aura è morta, allo stesso tempo dice che non è la fine del mondo. Sta a noi capire le nuove forme d’arte che nasceranno con i nuovi strumenti e le nuove tecnologie.
Chi si occupa di cercare di capire la direzione in cui stiamo andando?
Gli attori che se ne occupano sono diversi, penso a un filosofo come Pietro Montani, o a Lev Manovich, che da 15 anni esplora i caratteri della cultura digitale, o ancora Kenneth Goldsmith, che in qualche modo espande i generi letterari tradizionali. Quando parliamo di arte, infatti, parliamo anche di letteratura, e non a caso Benjamin studiava anche la fine del romanzo. Anzi, fu addirittura fra coloro che ne conclamarono la morte, forse in questo caso un po’ frettolosamente… Il romanzo tradizionale forse è andato in crisi, ma mentre si consuma questa crisi, in rete si manifestano nuove forme di scrittura. Prima alludevo all’esperienza del social reading, uno dei fenomeni di cui mi occupo nei miei libri. Ovviamente c’è sempre di mezzo la tecnologia, ma essa è una manifestazione pratica e concreta. Dietro la tecnologia c’è la tecnica, che non è la stessa cosa: è un modo di conoscere il mondo e di stare nel mondo, e qui ci soccorre Martin Heidegger, che quando parla di tecnica, la identifica con la poiesis degli antichi greci, ossia la non presenza che diventa presenza. Poiesis è ciò che si deve fare per disvelare ciò che è nascosto, la tecnica dunque è un modo di svelare il mondo, prenderlo e renderlo conoscibile. In fondo è una forma di conoscenza.
Ma questa accezione di tecnica è da intendersi come valore universale?
No, essa è tipicamente occidentale e deriva da una certa evoluzione del mito di Prometeo, così come esso è andato strutturandosi con Eschilo nel Prometeo incatenato. Cosa ci dice Eschilo? Che Prometeo ha donato ai mortali tutte le tecniche, che sono un nuovo modo di vedere il mondo. Prometeo dice, nella tragedia di Eschilo, che gli immortali non sono esseri sensibili, che vedono senza vedere, odono senza intendere. Potremmo discutere all’infinito sul modo migliore di tradurre la parola technae, potremmo dire «tecniche e arti», poiché per gli antichi greci i due ambiti non erano distinguibili. Nella visione cosmologica che ereditiamo dal mondo greco, all’origine di tutto c’è un furto per il quale Prometeo sarà punito. Vi è dunque la presunzione di noi mortali di impossessarci di prerogative che non ci appartengono.
La visione cinese è molto più serena da questo punto di vista, perché secondo essa la tecnica è un dono che tre divinità fanno all’umanità mettendosi d’accordo; dunque, non c’è né senso di colpa né il rischio di una vendetta. In un bellissimo studio intitolato Cosmotechnics e tradotto anche in italiano lo scorso anno, Yuk Hui, filosofo cinese, si occupa del confronto tra la visione cosmologica tecnica occidentale e quella orientale.
Dunque, se è inteso come un dono non ci si deve chinare sulle questioni etiche? Ma cosa succede con gli aspetti etico-morali?
Questa è una questione interessante di cui proprio Yuk Hui si occupa. Ormai la Cina è diventata una potenza tecnologica, al pari del grande competitor americano, e davanti a un’Europa che arranca. Ma quali sono le premesse filosofiche che possono portarla a fare delle riflessioni anche di carattere etico? Secondo Hui questo è un momento importante per la Cina, che in qualche modo sembra avere abdicato a una propria chiave di lettura, affrontando il problema della tecnica con gli stessi strumenti e la stessa prospettiva dell’Occidente, con il rischio di infilarsi nello stesso vicolo cieco. Secondo Hui la Cina ha forse un’opportunità in più, ma a condizione che si costruisca una sua cosmotecnica, e per «cosmotecnica» egli intende proprio una visione della tecnica nel mondo, e del suo ruolo nel mondo. Oggi la Cina si è impossessata di strumenti tecnologici spaventosi e spaventosamente potenti, ma manca di una cornice concettuale perché non riesce a usare quella occidentale.
Qual è la reazione naturale davanti alla tecnica?
Ogni volta che noi ci dobbiamo confrontare con la tecnica, essa crea disagio, e qui cito Freud. Il disagio nasce dalla sensazione di avere a che fare con qualcosa che ci appartiene, ma che allo stesso tempo è staccato dal nostro corpo, dalla nostra biologia; è come se fosse una sorta di protesi. Quando dicevo che l’intelligenza artificiale oltre a non essere intelligente non è neppure artificiale, intendevo dire che non è artificiale nel senso che è il prodotto della nostra cultura, quindi, non dovremmo viverla come un corpo estraneo.
Pensiamo a una banalissima giornata e a tutte le volte che utilizziamo l’intelligenza artificiale: andiamo in macchina e avviamo il navigatore, facciamo una ricerca su Google, comunichiamo con dei dispositivi vocali come Alexa o Siri, ci affidiamo alle banche che tramite IA stabiliscono il tasso ipotecario. In ogni ambito siamo supportati da algoritmi di cui non abbiamo la più pallida idea di come funzionino. Diventiamo cioè familiari con qualcosa che continua a esserci estraneo, perciò la necessità non è tanto quella di salvarci o difenderci dall’intelligenza artificiale, quanto più di curare la relazione tra la strana coppia essere umano-algoritmo.
Ma chi dovrebbe farsene carico?
Noi utenti dobbiamo aumentare il livello di consapevolezza. E in questo senso il ruolo della scuola è fondamentale: quando si parla di cultura digitale, bisogna andare oltre alla formattazione di un testo Word.
Lei fra le sue attività traduce in pratica i concetti fin qui esposti…
Abbiamo ad esempio creato Ublique, una piattaforma di decision intelligence che integra una serie di modelli matematici, di tecniche di analisi predittiva e di sistemi di simulazione che permettono di supportare i manager nelle loro decisioni, aiutandoli a identificare di volta in volta le opzioni più opportune attraverso un’analisi dei dati. Il nostro prodotto analizza i dati e fornisce modelli decisionali. Quando siamo passati alla fase della comunicazione, invece di raccontare le caratteristiche dei prodotti sul solito sito web, abbiamo deciso di unire intelligenza artificiale e arte.
Qual è il suo rapporto con l’arte?
Non sono un artista, anche se ho avuto i miei innamoramenti. Quando a vent’anni andai per la prima volta negli Stati Uniti, vi rimasi un paio di mesi trascorrendo giornate intere nelle grandi gallerie di New York, Washington, LA, eccetera. Scoprii l’arte informale americana, artisti come Willem de Kooning. Ritornato a Milano, con l’ingenuità dei miei vent’anni e davanti agli occhi esterrefatti di mia madre montai una gigantesca tela e nel soggiorno di casa dipinsi – a colori acrilici e brillantissimi – la facciata della chiesa di Santo Stefano di Milano. Mia madre mi diede un ultimatum: o io o la tela! Sono un grande appassionato di letteratura, infatti sono laureato in filologia romanza e in letteratura moderna con indirizzo filologico linguistico.