Dal Vangelo secondo Giovanni: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Tradotto in termini etici o deontologici potrebbe significare: valuta, analizza, cerca di comprendere prima di giudicare. In troppi, lo ammetto, io compreso, abbiamo giudicato Christopher Froome prima che fosse emessa la sentenza. Chi segue regolarmente il ciclismo sa di cosa sto scrivendo. Riassumo per chi non conosce i risvolti della vertenza. Il corridore britannico, vincitore di quattro Tour de France, un Giro d’Italia e una Vuelta di Spagna, è risultato positivo al salbutamolo, in occasione di un controllo antidoping nel settembre dello scorso anno proprio durante la corsa iberica da lui vinta. Dall’esame era emerso nel suo organismo un quantitativo del broncodilatatore, doppio rispetto al consentito. Trattandosi di una sostanza ammessa dal regolamento dell’Agenzia Mondiale Antidoping (AMA) entro il limite di mille nanogrammi al millilitro, Froome, in attesa di giudizio, non è stato sospeso e ha potuto proseguire la sua attività agonistica.
Il mondo del ciclismo, tendenzialmente, attendeva con trepidazione una sentenza di condanna con susseguente squalifica. Da un lato perché i precedenti casi analoghi di Alessandro Petacchi e Diego Ulissi si erano conclusi in tal modo. Dall’altro perché lo strapotere economico e politico della squadra di Froome, il Team Sky, risulta spesso irritante. Invece, proprio grazie al- l’enorme disponibilità finanziaria, Sky ha potuto accaparrarsi i migliori giuristi e i migliori medici, i quali sono riusciti a convincere la Commissione giudicante della non colpevolezza del corridore.
La sentenza di assoluzione è giunta cinque giorni prima dell’inizio del Tour de France, poche ore dopo che la Direzione di corsa aveva definito Froome persona non gradita, quindi non ammessa nella lista di partenza. Le motivazioni della sentenza, anche dopo svariate letture, risultano nebulose e complesse, al punto che noi comuni mortali, se volessimo schierarci dalla parte dei colpevolisti oppure degli innocentisti, lo faremmo in maniera puramente emotiva e irrazionale.
Il caso merita alcune considerazioni. Anzitutto per la tempistica. La notizia che la sentenza fosse in dirittura d’arrivo era nell’aria e sono convinto che il dato non fosse sfuggito ai potentissimi padroni del Tour de France. Chi ci dice che il direttore, Christian Proudhomme, non abbia utilizzato il pugno di ferro, proponendo l’esclusione del vincitore di quattro edizioni della Grande Boucle, nella consapevolezza che poco dopo, avrebbe dovuto riammetterlo? Se così fosse, il Boss della corsa se ne uscirebbe con l’immagine di strenuo difensore dei valori etici, e di implacabile nemico di chi bara.
In secondo luogo, una delle icone del ciclismo mondiale di sempre, il bretone Bernard Hinault, fino allo scorso anno grande maestro cerimoniere del Tour, si è spinto fino a esortare il gruppo a scioperare, qualora Chris Froome fosse stato al via, salvo poi correggere il tiro a sentenza avvenuta.
I social media hanno rivoluzionato le modalità di comunicazione. Hanno soprattutto favorito la perdita rapida e radicale del senso di responsabilità: nei confronti di ciò che si dice e si scrive, e nei confronti di chi si prende come bersaglio. Questa mancanza di riguardo la si può concedere, entro limiti legali, al comune cittadino, libero di sfogarsi e di sentenziare. Non la si può invece tollerare, a mio modo di vedere, in chi riveste importanti ruoli istituzionali.
Le scelte e le affermazioni di Prudhomme e Hinault hanno messo Chris Froome in una situazione quando meno imbarazzante. Il corridore è stato accolto da ululati, fischi e insulti in occasione della presentazione della corsa e la sua caduta in occasione della prima tappa è stata sottolineata dal pubblico con un boato di entusiasmo e di soddisfazione. In passato, prima ancora che scoppiasse il caso in questione, era stato omaggiato con sputi e gavettoni di urina.
Il Keniano bianco è un uomo gentile, un atleta serio, che ha il torto di correre sotto le insegne di un team ricco e potente, e di aver inalato una quantità eccessiva di Ventolin per placare l’asma. Tutto il resto: «vince perché bara», «nella sua équipe hanno trovato nuove sostanze dopanti che non si possono rintracciare», sono solo illazioni, ipotesi da bar, che andrebbero provate.
Anche David Lappartient, pure Bretone, presidente dell’Unione Ciclistica Internazionale (UCI), ci ha messo del suo per rendere ancora più precario il rapporto tra Froome e il pubblico francese. Da un lato ha lanciato un appello affinché il corridore fosse rispettato sulle strade della Grande Boucle, dall’altro si è lasciato sfuggire che un atleta appartenente a una squadra meno ricca e meno potente avrebbe probabilmente incassato una sentenza diversa.
Torno quindi alle parole dell’evangelista, che dovrebbero essere scritte sullo specchio davanti al quale ogni giorno ci laviamo viso, mani e denti. Negli ultimi 20 anni, nel ciclismo, i francesi hanno giocato spesso il ruolo irritante dei primi della classe, dimenticando però che anche loro, dopo il devastante caso Festina del 1998, si sono fatti pizzicare con le dita nel vasetto di marmellata. Vedi, ad esempio, il caso Cofidis, vedi la recente sentenza esemplare del PM marsigliese Franck Lagier, che ha considerato il corridore francese Rémy Di Grégorio persona non degna di svolgere la professione di ciclista, a causa di un suo plurimo coinvolgimento in questioni di doping. E pensare che, poverino, imbrogliare, non gli è nemmeno servito per diventare un campioncino.