Attraverso le misure e il monitoraggio dell’atmosfera, del tempo meteorologico e dei cambiamenti intervenuti sulla terra e negli oceani, gli scienziati possono identificare delle tendenze e redigere complessi modelli matematici per aiutarci a predire il clima del futuro. Questa previsione può essere usata per trarre conclusioni concernenti il riscaldamento globale e gli effetti dell’inquinamento e in definitiva può aiutarci a definire delle strategie di mitigazione. Le affermazioni appena ricordate sono al tempo stesso un esame della realtà esistente e una speranza per il futuro. Erano contenute in un comunicato dell’ESA (l’Agenzia spaziale europea) in occasione del lancio del satellite Aeolus (vedi «Azione» 43 del 2018) che dallo spazio avrebbe studiato i venti, e quindi la circolazione dell’aria, su tutta la Terra.
I suoi dati porteranno miglioramenti alle previsioni meteo e ai modelli climatici, oltre a fornire un gran numero di informazioni di alto contenuto scientifico. L’obiettivo, che è anche una speranza, mira a cercare di migliorare a ragion veduta la qualità dell’aria. La stiamo maltrattando da tempo, la nostra aria. Ma proprio per la sua natura impalpabile è difficile percepirne l’inquinamento e siamo portati a sottovalutarlo. Non sono molti anni che la gente sente parlare di polveri fini, ma è da parecchio che si parla della coltre di ozono distrutta dai clorofluorocarburi e c’è un martellamento mediatico sulle emissioni eccessive di gas a effetto serra, anidride carbonica (CO2) in primis.
Quei gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale della Terra, con tutte le conseguenze del caso. È una situazione nota da più di 30 anni (l’IPCC – International Panel on Climate Change – è stato fondato dall’ONU nel 1988) ma la cui minaccia effettiva stenta a esser interiorizzata sufficientemente dai cittadini, dall’economia e dalla politica. È bastato che un presidente come Trump, in occasione del G20 di fine 2018 in Argentina, liquidasse il tema protezione dell’ambiente con un tweet che affermava «Aria e acqua non sono mai state così pulite» per scatenare i negazionisti sparsi per il mondo, che si sono subito sentiti legittimati a ignorare gli allarmi suffragati da precisi dati scientifici per sostenere pratiche industriali anti-clima. Eppure già all’inizio degli anni ’70 il famoso Club di Roma nel rapporto «I limiti dello sviluppo», commissionato proprio negli Stati Uniti, al MIT di Boston, denunciava che la logica della crescita infinita in un pianeta finito è in conflitto con l’ambiente. Cosa purtroppo vera, ma era anche vero e giusto che la popolazione mondiale aspirasse a migliorare il proprio standard di vita e quindi che potesse consumare risorse. Per cui è venuto fuori nel 1987 il Rapporto Brundtland, dove si introduceva il concetto di sviluppo sostenibile, e poi nel 1992 la Conferenza di Rio de Janeiro, il Summit della Terra, con la sua Agenda 21.
Nel 1997 per il surriscaldamento globale si è cominciato a fissare dei paletti con il Protocollo di Kyoto, e dal 1995 si sono tenute annualmente le famose COP, le conferenze delle parti della Convenzione ONU sul cambiamento climatico. Nella COP21 di Parigi (2015) anche la Svizzera firmò l’accordo per contenere il riscaldamento globale medio sotto i 2°C rispetto all’era preindustriale. Adesso ci si è accorti che il riscaldamento globale in atto avanza a ritmi tali che gli obiettivi di Parigi saranno raggiungibili solo se si realizzeranno rapide e drastiche trasformazioni del nostro modo di vivere. Se si vuole fermare la crescita del riscaldamento globale di 1,5°C (i 2°C di temperatura non ci bastano più) entro il 2050 il bilancio delle emissioni di CO2 in atmosfera dovrà ridursi a zero. Una società senza emissioni è molto difficile da ottenere. La Germania di recente ha affermato persino di voler chiudere in tempi brevi tutte le sue centrali a carbone, che ne fecero la fortuna in un recente passato. Ma non basta.
A livello mondiale si è stimato che in uno scenario ottimale le tradizionali misure di mitigazione, come lo sviluppo delle energie rinnovabili, riusciranno solo a ridurre il CO2 dell’80%. Il resto dovrà essere ottenuto rimuovendo dall’aria il CO2. C’è già chi sta provando a farlo. Esistono studi e applicazioni, anche in Svizzera, per estrarre l’anidride carbonica dall’aria e immagazzinarla sottoterra, lasciandola fino a quando non si troverà il modo di riutilizzarla come fonte energetica. La tecnologia è recente: una ditta di Zurigo (la Climeworks) ha sperimentato fin dal 2017 a Hinwil un impianto che risucchia il CO2. La stessa ditta ha anche sviluppato un primo dispositivo commerciale sperimentale per trasformare quanto aspirato direttamente in un carburante sintetico. Lo ha inaugurato in Puglia nell’ottobre 2018. Per la parte scientifica ha lavorato col Politecnico di Zurigo e per la parte ingegneristica con una impresa francese.
Attraverso un particolare procedimento chimico chiamato metanazione, la CO2 aspirata dall’aria – mescolata con altri gas tra i quali l’idrogeno ottenuto separatamente da una fonte di energia rinnovabile come il fotovoltaico o l’eolico – viene trasformata in metano, stoccato sottoterra. Bruciando questo metano per usi energetici si libererà ancora il CO2, che però non sarà da considerarsi una nuova emissione (dicono i progettisti) perché sarà la stessa quantità che era stata aspirata e quindi il bilancio risulta uguale a zero. In pratica si è trattato di un riciclo. Parlando di aria, la strategia da applicare per far fronte agli effetti del cambiamento climatico non può che essere la mitigazione.
L’adattamento è pressoché impossibile. È nato il fenomeno degli emigranti ambientali, quelli che dalle regioni rurali stravolte dal riscaldamento globale fuggono altrove per trovare mezzi di sostentamento. Nelle grandi città ci si può abituare a respirare lo smog, ma ne va della salute. Tanti piccoli programmi sparsi per il mondo tentano di limitare le emissioni: uno di questi, supportato dalla Direzione dello sviluppo e cooperazione svizzera, sostiene le capitali di Bogotà, Santiago del Cile, Città del Messico e Lima, affinché si dotino di mezzi di trasporto pubblici e di macchine edili meno inquinanti.
È un progetto triennale da 3 milioni di franchi. Ci vogliono davvero moltissime piccole misure di mitigazione per salvare la nostra aria, ben sapendo che da sole non basteranno. Tra le strategie migliori e sicuramente più efficaci rimane quella di proteggere per davvero le foreste, che sono un regolatore nevralgico del clima del nostro pianeta. La foresta accumula enormi quantità di anidride carbonica nel suo ciclo vitale. La deforestazione rompe brutalmente il circolo virtuoso. In Amazzonia, nel Bacino del Congo, nel Sud Est asiatico, ci sono foreste minacciate. Ma anche sulla Cordigliera delle Ande, in Sud America, e in generale nelle regioni di montagna, che da sole ospitano il 28% delle foreste mondiali. Non ci si pensa mai abbastanza.