C’era una volta la badante, quella che trovavi tu da solo, chiedendo al prete, a uno sportello per immigrati, a un’amica. C’era una volta la badante, quella che non sapevi come farle il contratto, non sapevi se fidarti né se a parole vi capivate. C’erano una volta quei contratti, e ci sono ancora, in cui qualcuno è sfruttato, in cui non si sa come calcolare le ore notturne, le pause, gli alimenti, la stanza, le pulizie. C’era e in parte c’è ancora un grande caos. Ma le cose piano piano stanno cambiando.
Si sta sciogliendo soprattutto la domanda: di quale mestiere stiamo parlando? Di un mestiere normale, che faremmo io e te, quindi calcolato con vacanze, stipendio, orari e picchetti riconosciuti? O di una condizione particolare, rivolta esclusivamente a stranieri disperati, per cui ci si fa un favore reciproco «tu vieni a vivere a casa mia e in cambio badi a me»? Per anni è stato così: la badante veniva da un paese disagiato e aveva bisogno di lavoro e alloggio insieme. Era disposta a quasi tutto. A discrezione della famiglia che la impiegava si rispettavano gli orari oppure no. «Ci pagano, quindi pensano di averci comprate», mi hanno detto varie volte. Poi ci si è accorti che questa non è la strada, che non si può sperare in un popolo affamato disposto a vivere a casa dei nostri anziani, che quel rapporto di bisogno reciproco va trasformato in una professione. Con l’affetto e la dedizione di ogni mestiere di cura, ma regolato e solido, per la sicurezza di tutti, badati e badanti. E così, anche in Ticino ci sono nuove realtà che tutelano l’anziano, il malato e il suo assistente, e non solo: in questo modo si apre il lavoro a tutte le persone con una formazione e un’inclinazione specifica e non più solo con un «passaporto specifico».
Interpellato l’Ufficio cantonale degli anziani e delle cure a domicilio, ci risponde Chiara Gulfi, che segue la «questione badanti» da una decina d’anni, da quando cioè il fenomeno ha cominciato a emergere anche in Ticino. «I ticinesi vogliono restare a casa loro, quindi noi come Cantone dobbiamo promuovere la permanenza dell’anziano a domicilio finché può. Crediamo sia importante fare in modo che il lavoro della collaboratrice famigliare sia integrato in una presa a carico professionale; per questo di recente abbiamo avviato con il Sacd (Servizio di assistenza e cura a domicilio) di Mendrisiotto e Basso Ceresio e Abad del Bellinzonese una sperimentazione in cui il servizio di interesse pubblico impiega lui stesso la collaboratrice famigliare. Tra un anno circa tireremo un bilancio, per capire se funziona, come va proseguito e se è da ampliare. Guardiamo ai costi, certo, e ipotizziamo che fino ad alcune ore al giorno di bisogno, per un anziano sia più vantaggioso rimanere al proprio domicilio: abbiamo un occhio di riguardo anche per i familiari curanti e sappiamo che per sollevarli un po’ dai loro oneri ci vuole qualcosa di più che unicamente il passaggio degli infermieri e degli operatori sanitari».
Roberto Mora, direttore di Abad (Assistenza e cure a domicilio bellinzonese) spiega che alla base sta una riflessione sociale: «Dobbiamo chiederci quale visione abbiamo per le persone di terza e quarta età e quali siano le loro esigenze. Io credo che valorizzare la casa, la comunità, la vita, sia la strada giusta; è ciò che succedeva una volta, quando l’anziano restava in famiglia, e che adesso richiede un aiuto professionale in più. La casa per anziani dovrebbe diventare una libera scelta. Credo che non si debba scegliere tra la sicurezza di una struttura e il calore di casa propria: quello che noi cerchiamo di fare è dare sicurezza e calore insieme».
Abad offre questo servizio di collaborazione familiare di massimo quattro ore al giorno in via sperimentale. Per il momento ha a disposizione sei collaboratrici familiari che si occupano ognuna di alcuni utenti con esigenze maggiori rispetto all’aiuto infermieristico delle cure a domicilio. Mora sottolinea che lo scopo principale è la possibilità di permanenza a casa con i seguenti vantaggi: «la famiglia evita le complicazioni amministrative che comporta il diventare datore di lavoro: stipulare un contratto, pagare gli oneri sociali e le assicurazioni, garantire un’indennità in caso di malattia e così via. In secondo luogo garantiamo professionalità e formazione della persona che è inserita in un sistema integrato di cura: a seconda dei bisogni organizziamo e gestiamo insieme l’aiuto a domicilio dell’infermiera, della badante, dell’operatore sociosanitario e così via. Terzo, noi possiamo sostituire la collaboratrice se si ammala o quando è in vacanza e mediamo con la famiglia in caso di discussioni».
Come detto, oltre che per l’utente e l’impiegato, i benefici vanno anche a vantaggio di tutti i lavoratori del settore della cura, perché si apre per loro un nuovo mestiere che prima non avrebbero mai fatto (non sono molti i ticinesi ad acconsentire di andare a vivere da qualcuno per sei giorni su sette in cambio di un salario di 4000 franchi). Badanti autoctoni, si sa, cominciano a esistere, ma nessuno è disposto a lavorare con il classico contratto 24/24 7/7 con due ore di pausa al giorno e la domenica libera. Il mestiere del collaboratore famigliare inizia a conciliarsi con l’idea che anche il badante abbia una vita e una famiglia propria.
«Io ho lavorato da sola, cioè con contratti privati per sette anni e mezzo», ci racconta una signora ticinese che qui chiameremo Flora. Dopo la maternità, quando ha deciso di rientrare nel mondo del lavoro Flora ha fatto aiuto cuoca e pulizie in un albergo e infine è arrivata al lavoro di badante. Per sette anni e mezzo tutto bene, poi... «Poi mi hanno maltrattata. Sarebbe un mestiere bellissimo, ma se non hai una struttura che ti copre le spalle sei alla mercé di chi ti impiega, può andarti bene o può andarti male. Sono arrivata a lavorare tre giorni e tre notti di fila senza mai un minuto libero, dormendo meno di dieci ore in totale. Non sapevo nemmeno come lasciare solo per cinque minuti il signore a cui badavo per andare in bagno, perché era ingestibile. Quando provavo a chiedere aiuto alla famiglia, spiegando la situazione, i figli mi umiliavano, mi trattavano come una bugiarda e sminuivano i miei appelli. Mi sentivo una nullità». Flora aveva scoperto che il mestiere di badante le piaceva moltissimo e non intendeva mollare; si era sentita utile e brava «per la prima volta dopo tanto tempo». Alla fine ha trovato BeeCare, una società privata di Spitex e assistenza a domicilio, che offre ai privati anche un servizio di «badanti». «Qui guadagno meno di quando ero da sola, ma il fatto di far parte di una ditta mi fa sentire più protetta. Se c’è qualcosa che non va, non ho paura di perdere il lavoro, ma ho qualcuno che mi spalleggia, che si occupa di dire di no se mi chiedono mansioni in più o di discutere insieme dei problemi. Noi dobbiamo fare attenzione, perché lavoriamo con gente nel bisogno più assoluto e alcuni di loro diventano egoisti e cercano di sfruttarci. Se sei parte di una società e il contratto finisce, ti trovano un nuovo lavoro, non sei per strada. È molto meglio».
BeeCare è stata fondata nel 2016 da un gruppo di esperti aziendali, tra cui Tommaso Gianella, che ha lavorato a lungo nelle risorse umane; dopo anni di gestione aziendale era entrato in contatto con il mondo delle cure a domicilio: «Avevo visto che in questo settore una delle difficoltà sta nel conciliare buone condizioni di lavoro e soddisfazione delle esigenze dell’utente. C’è una solitudine nella figura della badante che affronta da sola un lavoro molto importante e delicato e c’è spesso solitudine intorno alla famiglia, o addirittura alla singola persona. C’è bisogno di un ascolto profondo di entrambe le parti per trovare la soluzione migliore ed è quello che cerchiamo di offrire con il nostro servizio».
Gianella e i suoi colleghi, oltre al personale curante dello Spitex, dispongono di una cinquantina di donne e una decina di uomini che lavorano a domicilio come badanti; ci sono famiglie che hanno bisogno di una presenza per un pomeriggio a settimana e altri che necessitano di tre persone per coprire un 24/24 7/7, per qualche settimana o anni... «Curiamo la relazione oltre che la parte organizzativa dei turni. Non si tratta solo di fornire una persona, ma di seguire un bisogno che muta e che è preciso e individuale. Il nostro personale è fidato e garantiamo noi per loro, così come ci prendiamo cura di lui perché ne siamo responsabili. Ci è capitato per esempio di dover trovare soluzioni alternative, perché alcune famiglie avrebbero fatto “dormire” la badante su una poltrona o in una brandina in corridoio; sono casi in cui la badante da sola non osa quasi mai imporre i suoi diritti, mentre noi creiamo un contesto professionale in cui la cura possa svolgersi al meglio con beneficio di tutti».
Tutti include anche la popolazione in generale: infatti due terzi dei badanti impiegati dalla società sono residenti e tra questi ci sono molti ex disoccupati, soprattutto persone che hanno perso il lavoro intorno ai 55-60 anni e sentivano la vocazione di reintegrarsi nel mondo della cura.