Permettetemi di tornare idealmente al 16 febbraio 2005, una data che ai giovani ecologisti forse dice poco, ma per chi ha vissuto e seguito fin dall’inizio l’epoca delle preoccupazioni ecologiche segna una pietra miliare del discorso sul clima.
Quel giorno entrò in vigore il famoso Protocollo di Kyoto, il trattato che avrebbe dovuto difendere l’ambiente da tutti quegli inquinamenti, soprattutto dell’aria, che ne favoriscono il riscaldamento. Il Protocollo, messo a punto nel 1997 nella metropoli che gli diede il nome, seguiva una Convenzione voluta all’indomani della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992. Era stato fatto l’inventario delle minacce per l’ambiente terrestre e si volevano dare direttive di comportamento per tutti i Paesi industrializzati, proprio quelli che erano ritenuti potenzialmente più pericolosi per gli equilibri planetari a causa delle forti emissioni di gas a effetto serra, anidride carbonica in primis.
L’effetto serra è l’intreccio di fenomeni naturali che permette al pianeta di non congelare: se mantenuto a livelli accettabili garantisce la vita sulla Terra. A livelli altissimi, come su Venere, ogni forma di vita come la conosciamo è preclusa. Da noi l’azione dell’uomo, in particolare con l’industrializzazione, l’accresciuta mobilità e la globalizzazione, ha portato a una modificazione degli equilibri dell’effetto serra naturale, con un conseguente riscaldamento progressivo dell’atmosfera.
Si dice questo per far notare che la grande eco mediatica, giustificatissima, seguita alla pubblicazione del 9 agosto scorso del sesto Rapporto ONU del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) non è una novità. Rappresenta tuttavia l’ennesimo grido d’allarme, espresso in toni particolarmente crudi. A sorprendere è stata più la forma che non la sostanza, quella la conoscevamo già. Ma non è un caso. Il rapporto pubblicato dall’IPCC è il frutto del lavoro del suo primo gruppo di lavoro (WG1) che si occupa delle «basi scientifiche del cambiamento climatico». A esso si aggiungono i rapporti di altri due gruppi: WG2 sulle conseguenze del cambiamento climatico e WG3 sulle misure di protezione del clima.
I risultati scaturiscono dalle attività dei servizi meteorologici nazionali e dalle università di 195 Stati, che mobilitano centinaia di scienziati super-qualificati. WG1 valuta lo sviluppo futuro del clima sulla base di scenari climatici ottenuti con dati scientifici certi, sviluppati con modelli globali. Il prossimo mese di novembre, a Glasgow, in Scozia, si terrà la Conferenza sul clima COP26 e il sesto rapporto dell’ONU appena pubblicato fornirà alle Nazioni partecipanti una base sulla quale discutere e negoziare (giova ricordare, per esempio, che fu il Rapporto IPCC del 2013 ad aprire la strada all’accordo di Parigi del 2015).
Non per nulla il nuovo rapporto contiene quaranta pagine intitolate «Sommario per i responsabili politici». Un punto del sommario salta subito all’occhio. Secondo gli scienziati l’attuale evoluzione mondiale non è in linea con le prescrizioni dell’accordo di Parigi: in sostanza, andando avanti così non si riuscirà a ridurre il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Si parla addirittura di 3°C come dato più attendibile, cosa che fa aprire lo sguardo su scenari catastrofici. Altro punto novità: la prova provata che il contributo umano sia centrale nell’accelerazione del riscaldamento globale. Poi un’amara, e scientifica, constatazione: i cambiamenti sono più veloci di quanto si pensasse e gli effetti estremi sono sempre più frequenti.
Se agli inizi, quando il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente e l’Organizzazione Meteorologica Mondiale fondarono l’IPCC (il primo Rapporto uscì nel 1990), c’era chi metteva in dubbio l’autorità, la competenza e l’imparzialità degli scienziati che raccoglievano i dati. Oggi la comunità scientifica internazionale è concorde nel dire che l’IPCC sta facendo il suo dovere già da tempo e che sono i politici e la società che devono mobilitarsi e agire con urgenza.
Come possiamo convincere gli scettici? Far abbandonare le reticenze e agire? Non bastano i cortei di protesta. La Natura ci sta dando segnali evidenti (vedi articolo di fondo di Peter Schiesser, «Azione» n° 33 del 16.8.2021), dobbiamo coglierli e muoverci più rapidamente nella giusta direzione. Un esempio per tutti: il disboscamento della foresta amazzonica del Brasile costituisce uno dei maggiori disastri ecologici causati dall’uomo.
Dalla fine degli anni Ottanta sono state sottoposte a taglio raso superfici enormi per permettere l’insediamento di grandi aziende di allevamento bovino e per attività agroindustriali. La cosa era partita da lontano: fin dagli anni Sessanta con l’aiuto del governo militare si invitarono i coloni delle regioni aride del Nordest e delle aree urbane ad addentrarsi nell’Amazzonia con il miraggio di un futuro economicamente migliore. La popolazione di quella regione è passata da sei milioni a venti milioni di abitanti in cinquant’anni. Le politiche dei successivi governi democratici hanno agito allo stesso modo: lo sfruttamento e gli appetiti industriali hanno fatto il resto.
Si sa che il bacino amazzonico è un regolatore importantissimo del clima del nostro pianeta. La foresta accumula enormi quantità di anidride carbonica sottraendola all’atmosfera e la deforestazione annulla questo beneficio. Ai fini climatici disboscare equivale a generare inquinamento dell’aria quanto l’uso dell’energia fossile: petrolio, gas, carbone.
Tuttavia, su tutta la Terra tenere la foresta per la foresta non ha molto senso. C’è tanta gente al mondo che vive ai margini o dentro la foresta e vive della foresta. I boschi e le zone ricche di vegetazione sono una risorsa preziosa. In una corretta visione di sviluppo sostenibile è bene poter lasciar vivere queste persone nel loro ambiente, insegnando loro a non depredarlo o impoverirlo e a mantenerlo produttivo per le loro necessità. Se ne sta occupando per la Conservation International di Washington l’esperto ticinese Giacomo Fedele, dottore in Scienze Ambientali, da una decina d’anni attivo in Asia, Africa e Sud America nella salvaguardia delle foreste in riferimento ai cambiamenti climatici.
«Grazie all’abilità delle foreste di rigenerarsi naturalmente, in principio, noi potremmo sfruttarle indefinitamente mantenendo invariata la loro superficie», annota in una sua pubblicazione, «sfortunatamente a livello globale questo non sta succedendo. È quindi importante sostenere le Nazioni affinché gestiscano responsabilmente le proprie foreste. Perché i boschi hanno bisogno della gente quanto la gente ha bisogno dei boschi».