L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti è il titolo del nuovo libro di Matteo Lancini, psicoterapeuta e docente alle università Milano-Bicocca e Cattolica di Milano. Il testo analizza le responsabilità del mondo adulto nei confronti dei teenager e l’incapacità di capire il loro malessere. La pandemia ha reso l’adolescenza ancora più difficile ed è compito dei grandi capire quali soluzioni mettere in atto.
Matteo Lancini, in che modo la pandemia sta condizionando gli adolescenti?
La pandemia ha esacerbato espressioni di sofferenza e disagio già presenti. I giovani esprimevano un malessere anche prima, attaccando il proprio corpo con fenomeni autolesionisti come i disturbi dell’alimentazione, il ritiro dalla vita sociale e i tentativi di suicidio, spesso rimossi nelle discussioni familiari e pubbliche. Su quest’ultimo aspetto non abbiamo dati esatti, mancano anche in Svizzera, mentre sarebbero molto importanti.
A mio parere gli adulti dovrebbero assumersi la responsabilità della società che hanno creato, troppo individualista e competitiva, smettendo di dare la colpa a cause esterne, prima a Internet e adesso alla pandemia. Penso che dovremmo assolutamente trasformare questa crisi in un’occasione di miglioramento, altrimenti avremo sofferto tutti per niente.
Nel suo libro scrive che gli adolescenti di oggi non sono ribelli, come quelli delle generazioni che li hanno preceduti, ma delusi. Qual è il motivo di questo cambiamento?
La causa principale è stata il cambio dei modelli educativi familiari. Una volta si cresceva in una famiglia tradizionale, normativa, in cui si doveva ubbidire. L’adulto morigerava, controllava e sottometteva i bambini in nome dei propri valori. In quella cultura, che sicuramente non possiamo rimpiangere, l’arrivo dell’adolescenza implicava un conflitto forte, un attacco ai grandi, al loro valore simbolico. Negli ultimi anni, invece, la famiglia è diventata più affettiva ed è cambiato anche il contesto.
Quando arriva l’adolescenza, lo scontro non è più rivolto alle norme esterne ma contro sé stessi. I bambini di oggi hanno una grande spinta ad avere tanti amici, a fare molte attività e a vestirsi come degli adulti. A crollare, quando si entra nell’adolescenza, sono gli ideali. Non arriva la trasgressione, ma la delusione. Non ci si sente adatti, non si è mai abbastanza belli né popolari: come conseguenza, non si attaccano gli altri, ma il proprio corpo, perché si sono deluse le aspettative dei genitori e della società, basata sull’individualismo sfrenato e su un’idea impossibile di successo. Si sperimenta un sentimento di vergogna che porta a volere scomparire. Nemmeno il consumo dei cannabinoidi, hashish e marijuana, è più trasgressivo, ma è un’anti-noia, un antidolorifico.
Negli ultimi due anni di pandemia i teenager si sono comportati benissimo all’esterno – adesso c’è qualche segnale di disagio nelle città, con gli attacchi agli arredi urbani e le risse – riversando il disagio contro di sé. Il corpo è diventato il megafono del dolore e della paura di non farcela.
Lei spiega che gli adulti dovrebbero capire il «dolore evolutivo» degli adolescenti. Perché non riescono a farlo?
Il «dolore evolutivo» è la sofferenza che non dipende esclusivamente da quanto è accaduto in passato, cioè non c’entra con quello che non si è ricevuto nell’infanzia dalla famiglia. La seconda nascita adolescenziale implica la realizzazione di compiti evolutivi nuovi, tra questi mentalizzare un corpo con certe caratteristiche, separarsi dai genitori e andare avanti da soli. «Dolore evolutivo» significa che se non si intravede un futuro, si preferisce scomparire.
I ragazzi e le ragazze di oggi sono cresciuti con il disboscamento del pianeta, la plastificazione dei mari, le crisi economiche, l’incertezza di un reddito stabile, in una società nella quale gli unici lavori certi saranno, secondo tutte le ricerche, saper usare Internet e produrre videogiochi. Invece di provare a capire cosa significhi vivere in un mondo del genere, gli adulti fanno ricorso a modelli standardizzati e incolpano i giovani.
Secondo lei consideriamo l’infanzia diversamente da quanto facevamo in passato e dovremmo fare lo stesso con l’adolescenza. In che modo?
C’è una precocizzazione dell’infanzia a cui segue un’infantilizzazione dell’adolescenza. Abbiamo modificato il modo di guardare ai bambini, non li consideriamo più una tabula rasa. Li cresciamo senza farli soffrire e quando entrano nell’adolescenza e non riescono a esprimere i fallimenti e ad affrontare gli ostacoli, gli diciamo che sbagliano, che sono senza nerbo. Proponiamo modelli educativi vecchi: pensiamo di dovere controllare i teenager, di mettere dei limiti, di usare «i no che aiutano a crescere».
Ma come possiamo pensare che lo scarto tra un’infanzia iperstimolata e protetta e un’adolescenza incompresa funzioni? Passiamo le giornate attaccati ai cellulari; mentre sono piccoli, li inseguiamo con gli smartphone per fare foto e video, poi all’improvviso, quando hanno tredici anni, gli diciamo che Internet è il male. C’è qualcosa che va rimodulato. Nell’infanzia, dovremmo smetterla di rimuovere il dolore e gli inciampi, pensare che dagli errori si impara. Nell’adolescenza, dovremmo accettare di avere costruito una società problematica, aiutando i ragazzi a viverci dentro, affrontando i temi scomodi che li riguardano, come ad esempio il suicidio.
Gli adulti come possono sostenere davvero gli adolescenti?
Serve una rivoluzione affettivo-relazionale, occorre identificarsi di più con le fragilità e i bisogni dei ragazzi e delle ragazze. Gli adulti sono troppo concentrati su sé stessi, non si rendono conto del contributo che i teenager vogliono e possono dare. Anche la politica è miope rispetto a questo. Dovremmo fargli sentire che sono importanti per la società, che sono responsabili. Dovremmo dire: guardate cosa abbiamo combinato, che mondo tremendo, dateci una mano a costruire un futuro migliore. È difficile che le altre generazioni facciano peggio di noi.