Negli ultimi venti anni il tema delle «migrazioni climatiche» ha fatto crescere l’attenzione degli accademici e dei politici. Gli studiosi cercano verifiche oggettive che possano portare a linee guida per misure adeguate da prendere nei confronti di un clima che cambia, mirando a garantire la sicurezza e il benessere delle popolazioni.
I politici spesso cavalcano il fenomeno in chiave propagandistica, enfatizzando le mezze verità e permettendo ai media di condizionare l’opinione pubblica nel senso che a loro conviene. Uno sguardo distaccato ci fa capire che c’è bisogno di chiarezza e di combattere una certa sfiducia nella scienza, che ultimamente è stata portata avanti volutamente da qualcuno per fini strategici.
Una recente conferenza, tenutasi al Monte Verità di Ascona all’inizio di marzo, si è occupata nell’arco di tre giorni dell’«interconnessione tra cambi climatici e mobilità umana: un modo di definire nuovi percorsi di conoscenza». L’approccio multidisciplinare includeva il diritto, la storia ambientale e l’arte visuale. Esperti della materia e giovani ricercatori si sono avvicendati in workshop e panel. In una tavola rotonda aperta al pubblico sono stati anche presentati i risultati del progetto europeo Clisel (Sicurezza climatica con le autorità locali) che ha visto tra i partner il World Trade Institute dell’Università di Berna. Con uno dei promotori del progetto, Marco Armiero, professore di storia ambientale al KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma, abbiamo parlato dei mutamenti ambientali sulle migrazioni di massa.
«Sul nesso tra migrazione, ambiente e benessere vale la pena di fare una riflessione – dice Armiero – perché una certa frazione della popolazione europea vede l’immigrazione come un potenziale attentato al benessere. In Svezia e in Italia si è parlato dei migranti come di portatori di malattie. La cosa non è nuova. Ricordo che si diceva lo stesso all’inizio del Novecento: per anni i migranti sono stati ritenuti colpevoli di epidemie di tifo e di poliomielite a New York. I cinesi erano i capri espiatori per qualsiasi epidemia si propagasse a San Francisco. Ragionando oggi senza pregiudizi verso chi arriva da Paesi poveri e dove le condizioni di salute e igiene in genere sono precarie, si vede che non sta qui il problema. Non esiste alcuna emergenza, e la minaccia al nostro benessere non è quella migratoria ma piuttosto quella che viene dalla carenza di fiducia nella scienza. Per esempio, parlando di Svezia, dove vivo e lavoro, o di Italia, la mia patria d’origine, un vero pericolo per la salute è stata la recente campagna contro le vaccinazioni, condotta dal movimento No Vax. Ha suscitato grande dibattito e con delle fake news si è cercato di minare l’autorità, il valore e la legittimazione della scienza. Anche il proliferare di scelte per la medicina fai da te ha confuso le idee. Questo sì che è pericoloso e questa è la vera emergenza in Europa».
Ricordo che anche uno storico della Medicina e della Sanità dell’Università di Ginevra, parlando all’USI lo scorso anno, affermava che «la paura ancestrale legata alle epidemie del passato spinge evidentemente a esagerare i rischi legati ai migranti e a sottovalutare quelli connessi a nuovi tipi di epidemie, come il tabagismo e il diabete, e a nuovi modi di trasmissione delle epidemie».
Tornando alle migrazioni climatiche è indubbio che nel mondo ci si sposti parecchio a causa delle mutate condizioni ambientali. Spostamenti che si verificano in maggior misura all’interno dei Paesi stessi, per cui è giusto aiutare le persone sul posto, dove è possibile. Un dato ONU riferisce che nel 2017 ben 40 milioni di individui hanno dovuto migrare all’interno dei paesi poveri, abbandonando il proprio luogo d’origine a causa di conflitti, discriminazioni, povertà e catastrofi naturali. Le proiezioni più accreditate dicono che i flussi migratori in conseguenza dei cambiamenti climatico aumenteranno di decine di milioni di individui da oggi al 2050. Questi sono i cosiddetti migranti climatici.
È difficile darne una definizione, perché il fatto che dei cambiamenti climatici spingano le persone a decidere di migrare si unisce ad altri fattori. La cosa diventa problematica a livello politico/legislativo quando l’emigrazione avviene fuori dal proprio Paese e il migrante diventa profugo. È abbastanza facile parlare di rifugiato politico e rifugiato economico, più difficile è dare uno statuto e dei diritti al rifugiato ambientale o climatico.
Si sa che da due milioni di anni le popolazioni umane si sono spostate dal continente di origine, l’Africa, migrando ovunque, adattandosi e diversificandosi. Ma l’uomo ha poi tracciato dei confini, stabilito frontiere e fissato delle leggi. La vita si è complicata e la facile mobilità di oggi ha creato nuovi problemi. Non è ragionevolmente possibile stabilire un rapporto diretto di causa-effetto tra cambiamento climatico ed emigrazione. Però il fenomeno esiste. Quando si innalzeranno i mari si sa già che in Bangladesh milioni di persone dovranno emigrare.
«Parlando di migranti – afferma il professor Armiero – penso che l’importante sia considerare il clima come uno dei fattori e non come il fattore determinante. Se ci chiudiamo su questa visione rischiamo di non capire i problemi e quindi di non prendere le misure giuste per affrontarli. In Europa riconosciamo l’esistenza di un cambiamento climatico di natura antropica. Però riconoscerlo non ci aiuta molto a dire cosa dobbiamo fare. Qualcuno potrebbe rilanciare le centrali nucleari come la vera risposta, perché non emettono CO2, qualcun altro potrebbe dire che la soluzione è la decrescita, che bisogna consumare meno, eccetera.
«Nel nostro progetto abbiamo coinvolto le piccole comunità, perché sono i governi di città e comuni che sono più vicini alla gente e su di loro possiamo incidere di più. Si può anche fare molto a livello individuale, essere consumatori responsabili e consapevoli. Tuttavia, lo dico provocatoriamente, questo non basta. Credo che sia il momento di diventare attivisti globali. Non fraintendetemi, ognuno può tenersi le sue opinioni politiche. Ma pensate a Greta, una ragazzina svedese con un leggero disturbo dello spettro autistico che guida oggi i giovani studenti per una rivolta globale contro il cambiamento climatico. Secondo me è Greta quello che serve per il nostro benessere. Serve qualcuno che, sì, consuma responsabilmente, ma che capisce che non basta agire soli. Che oggi è tempo di prendere in mano le sorti del mondo.
«Le élite globali, che sono l’1%, lo hanno già fatto, ma solo per il proprio interesse. Tocca al 99% provare invece a salvarci, e bello sarebbe salvarci tutti insieme, non uno contro gli altri».