I trattamenti cosiddetti «anti-androgeni» usati nella terapia contro il tumore alla prostata potrebbero avere un effetto protettivo contro Covid-19. È l’idea sulla quale poggia l’ipotesi di uno studio farmacologico che parte dal Veneto e si delinea in Ticino in un protocollo clinico di verifica che vede coinvolti più attori: i ricercatori dello Institute of Oncology Research (IOR) guidati da Andrea Alimonti, professore all’Istituto di ricerca in biomedicina (IRB), l’Università della Svizzera italiana (USI) e l’Istituto oncologico della Svizzera italiana (IOSI) grazie alla sua direttrice medica e scientifica Silke Gillessen Sommer.
Ne parliamo con l’oncologo responsabile dello studio per lo IOSI Ricardo Pereira Mestre: «Circa 90 malati di Covid-19 ticinesi hanno la possibilità di assumere l’Enzalutamide, un farmaco generalmente ben tollerato che solitamente viene usato per arginare il tumore prostatico». Tutto, dicevamo, parte da studi che poggiano su un grande volume di dati sanitari del Veneto dove si è osservato un rischio minore di sviluppare l’infezione da Coronavirus per gli uomini sottoposti a questo tipo di terapia: «I dati pubblicati sulla rivista “Annals of Oncology” parlavano di 5273 pazienti con cancro alla prostata sottoposti a una terapia di deprivazione androgenica (basata cioè su trattamenti che contrastano gli ormoni maschili e i loro effetti sullo sviluppo del tumore). Di questi 5237 pazienti solo 4 hanno contratto la malattia Covid-19 e nessuno è deceduto. D’altra parte, dei 37’161 malati di tumore prostatico non curati con questo farmaco, 114 hanno contratto l’infezione da nuovo Coronavirus e 18 sono morti».
Interessante la deduzione cui ci porta il nostro interlocutore: «I pazienti con carcinoma prostatico sottoposti a terapie con questo farmaco mostrano un rischio significativamente ridotto di quattro volte di ammalarsi di Covid-19 rispetto ai pazienti con tumore alla prostata che non lo hanno ricevuto». Inoltre: «Rispetto ai pazienti con qualsiasi altro tipo di cancro, quelli con carcinoma prostatico trattati con questo farmaco hanno un rischio oltre cinque volte minore di sviluppare il Covid-19».
Ora, considerando i presupposti di maggiore aggressività da parte del Coronavirus sugli uomini per rapporto alle donne, il dottor Pereira Mestre ci chiede di concentrarci dapprima sul meccanismo di moltiplicazione del Coronavirus: «Per il virus è fondamentale riuscire ad entrare nella cellula per potersi moltiplicare al suo interno, usandone le strutture. Ma per entrarvi, deve usare per così dire due “porte d’entrata”, una delle quali fondamentale e controllata dal recettore degli androgeni (ndr: ormoni maschili su cui agisce per l’appunto il farmaco antitumorale)». L’ipotesi di ricerca si basa perciò sulla possibilità che il trattamento farmacologico (che agisce proprio sugli androgeni) sia quindi efficace nel bloccare proprio questa porta, fungendo come scudo della cellula per impedire al virus di entrarvi e di moltiplicarsi». Si dovrà dimostrare che questo farmaco riesce letteralmente a «chiudere la porta in faccia» al virus proprio quando si sta moltiplicando attivamente nell’organismo.
«Vogliamo concentrare questa ricerca sulle persone più fragili, dunque più a rischio: maschi (perché con decorso più grave delle donne), età avanzata e malattie pregresse come diabete, ipertensione e via dicendo». Punto di partenza è pure il presupposto di maggiore efficacia del trattamento se effettuato all’inizio della malattia: «Vogliamo iniziare la cura appena il tampone risulta positivo, perché confidiamo in una sua maggiore efficacia proprio all’inizio della malattia, quando i sintomi sono minimi (si sa che possono aggravarsi tra il quinto e il decimo giorno, dopodiché potrebbe esserci il tracollo che esige l’ospedalizzazione), in modo tale – se l’ipotesi viene verificata – da avere migliore decorso e migliore prognosi».
Lo studio durerà circa un anno e i pazienti che vi si sottopongono sono: «Uomini che hanno più di 50 anni e sono a rischio (ndr: potrebbero sviluppare complicazioni da Covid-19) perché soffrono ad esempio di diabete o ipertensione». Essi ricevono una terapia promettente in un contesto controllato che li monitorizza costantemente: «Bisogna iniziare appena il tampone risulta positivo così che i pazienti possano restare a casa e non essere ospedalizzati. Disponiamo allora il monitoraggio costante dei parametri a domicilio (saturazione di ossigeno, pressione e temperatura) che avviene in remoto, con l’ausilio della telemedicina. Essi sono dunque collegati con il Cardiocentro, con il 144 pronti a intervenire a un eventuale aggravarsi della situazione. Curasuisse si occupa di andare a domicilio per gli esami del caso come elettrocardiogramma e prelievi di sangue».
È un po’ come portare l’ospedale a casa: «Questo perché secondo noi la chiave potrebbe stare proprio nel bloccare la malattia nella sua fase iniziale, evitando così un decorso grave e tentando di anticipare la guarigione con il blocco degli effetti del virus». L’idea, concepita la primavera scorsa, è oggi concreta: «Tra poco potremo avere i primi risultati indicativi intermedi». Si parte da una teoria scientifica, si utilizza un farmaco già in commercio, anche se per un’altra indicazione, e se si dimostrasse l’efficacia preliminare si potrà passare alla prossima tappa della sperimentazione su un numero più significativo di persone: «L’uso di questo farmaco per curare il Covid-19 sarà immaginabile solo fra uno o due anni, perché non si possono tralasciare le fasi della sperimentazione. Ora siamo alla fase due: farmaco già noto testato su nuova indicazione, poi passeremo alla fase tre che testerà l’efficacia su larga scala».
Interessante la collaborazione dell’Ordine dei Medici del Canton Ticino: «È essenziale il rapporto di collaborazione dei ricercatori con il medico di famiglia, che è colui che mantiene il contatto diretto col paziente sia all’annuncio del caso sia durante il trattamento stesso». La direzione è quella di curare nell’ambito di uno studio che potrà sì essere lungo, ma permette di monitorare l’efficacia della cura stessa, conclude il dottor Pereira Mestre, ricordando ancora il sostegno della medicina di famiglia che: «Seppur in un momento di crisi, sa dare un “sostegno importante” anche nell’ambito della ricerca». Tutto a beneficio di una lotta comune contro il virus.