Bisogna ripartire dai numeri

Ambiente - Non basta l’impegno del popolo autoresponsabilizzante, per un’efficace azione collettiva servono attente decisioni politiche; ne parla Telmo Pievani
/ 14.11.2022
di Manuela Mazzi

«Non c’è più tempo per decidere a quali interventi dare priorità: bisogna fare tutto!». Così ha risposto un esperto tedesco al giornalista che chiedeva da che parte fosse necessario iniziare per risolvere i vari problemi ambientali. È accaduto durante un recente convegno che ha riunito esperti internazionali del cambiamento climatico a Padova – città in cui insegna filosofia delle scienze biologiche l’evoluzionista e saggista Telmo Pievani, ospite, lo scorso mese, al Festival Sconfinare di Bellinzona.

Sempre l’esperto tedesco ha poi aggiunto che sarebbe bene ripartire dai numeri, per evitare alibi o sgravi di colpa. Concetto ribadito proprio da Pievani, a Bellinzona: «Se ne discuteva già nell’Illuminismo: quando i politici non sanno fare il loro mestiere invocano la virtù dei cittadini, sebbene siano stati eletti proprio per assumersi questo tipo di responsabilità».

I fatti lo spiegano meglio. Tornando ai numeri, è nota la campagna di sensibilizzazione che invita i cittadini a ridurre e ottimizzare il consumo di acqua, facendo, ad esempio, docce più corte (o «a due» come qualcuno suggerì da noi): «Ed è giustissimo!» ha affermato Pievani: «Però se poi si vanno a vedere i numeri si scopre che i consumi privati (ndr. in Italia) corrispondono a meno del 5% del consumo totale dell’acqua: e il resto del 95% dove va? Nell’agricoltura e nell’industria. Dunque – si interroga il filosofo delle scienze – il problema è la mia doccia o il fatto che l’agricoltura e l’industria prendano più del 90% di tutto il consumo dell’acqua? Senza contare che del restante 10%, metà viene sprecata dalla fonte al rubinetto. Non basterebbe risanare la tubatura per portare tutta l’acqua ai rubinetti, così da farci già risparmiare il 50% del consumo privato? E ancora: non sarebbe meglio capire che forse non ha più senso puntare sull’agricoltura intensiva di coltivazioni idrovore come il kiwi e lo stesso mais?».

Le ripartizioni italiane sono confermate anche a livello mondiale, secondo i dati del World Water Assessment Programme (WWAP): il 70% dell’acqua consumata viene usata per l’irrigazione, il 22% per l’industria, e l’8% per uso domestico.

Rimanendo sui numeri, si possono anche fare calcoli concernenti altri aspetti legati allo stesso problema, come il consumo di carne rossa: «Dobbiamo diventare tutti vegetariani o vegani? No!» ha detto Pievani: «Poi se uno vuole diventarlo, benissimo per lui. Ma se uno vuole rimanere onnivoro può agire in modo d’avere un impatto ben maggiore di quanto possano fare tutti i vegani e tutti i vegetariani di oggi messi insieme, decidendo per esempio di ridurre di un terzo il consumo (solo) di carne rossa; mangiando al suo posto coniglio, pesce, pollo, o quello che si vuole. Non si tratta di fare una scelta né religiosa, né filosofica, e nemmeno serve diventare asceti, né fare sacrifici drastici, ma si tratta semplicemente di cambiare un comportamento».

Secondo «Nature» (www.nature.com), una delle più antiche e importanti riviste scientifiche, l’effetto di un simile intervento avrebbe sul clima un impatto impressionante, dalla diminuzione dell’uso di antibiotici, a quella di acqua e di emissioni di gas serra potentissimi: «Tale riduzione di domanda metterà, sì, in crisi alcuni settori, ed è per questo che bisognerebbe decidere per una transizione industriale pianificata politicamente».

Di regola toccherebbe dunque e soprattutto alla politica prendersi la responsabilità di intervenire per migliorare la situazione, ma purtroppo pare non sia più il momento giusto: «Qual è la tragedia secondo me che si aggiunge adesso?», si è domandato Pievani: «Ebbene situazioni di conflittualità internazionale come quella in atto tra Russia e Ucraina, l’aumento dei prezzi, la speculazione eccetera, allontanano la via più importante che è quella delle scelte politiche internazionali. I casi di studio positivi – si prenda ad esempio il protocollo di Montreal sul buco dell’ozono – sono sempre partiti dall’alto: dopo tanto lavoro di crescita di consenso e rinuncia, le Nazioni Unite sono riuscite a mettere ancora una volta attorno al tavolo tutte le grandi potenze, ci hanno fatto firmare un protocollo, sono cambiate le filiere industriali e il problema non dico che sia risolto però abbiamo inciso potentemente nel ridurlo. Quindi è una decisione top-down di livello internazionale. Quanti anni ci vorranno prima che Cina, Europa, Stati Uniti, Brasile, India, per non citare la Russia, si siederanno ancora tutti attorno a un tavolo per discutere serenamente di cambiamento climatico e biodiversità? Quando mai succederà?».

Eppure, se si considera che gli accordi di Parigi ormai sono già saltati (non c’è più nessuna possibilità di stare sotto il grado e mezzo di innalzamento medio; siamo a +2 in Svizzera), proprio ora avremmo bisogno di una potente rinegoziazione per stare sotto i due. Mentre, difficili si stanno già rivelando gli accordi in discussione all’interno del summit Cop27 sul Clima che si sta svolgendo a Sharm el-Sheikh proprio in questi giorni, in Egitto (vedi articolo di Alfredo Venturi a pagina 25 ). Si tratta di uno dei tre importanti convegni internazionali; seguono il vertice del G20 che si terrà in Indonesia, a Bali, il 15 e 16 novembre, e la Cop15 di Montréal (Canada), ovvero la Convenzione delle Nazioni Unite sulla biodiversità, in agenda dal 7 al 19 dicembre.

Se ai vertici non trovassero soluzioni immediate, che alternative abbiamo? Secondo Pievani, ormai è in ogni caso necessario «lavorare anche su un altro fronte, cioè invece che dall’alto al basso, dal basso all’alto, ciò che significa lavorare ancora di più per generare consenso collettivo attraverso pressioni dal basso». Forse non proprio nella maniera vandalistica adottata di recente da molti giovani attivisti, ci viene tuttavia da dire. Rovinare opere d’arte a favore della natura, non porta consenso ma forte critica.

Meglio sarebbe tornare all’istintivo attaccamento alla biodiversità che abbiamo perso: «Partiamo da qualche dato. In Europa – ha riassunto Pievani – più del 75% di noi vive in città, o comunque in un contesto fortemente antropomorfizzato. Per alcuni questo processo in continuo aumento è una catastrofe perché le megalopoli del futuro potrebbero avere un impatto terrificante, però potrebbe diventare anche un’opportunità: se si riuscisse, per esempio, a sperimentare un vero lavoro sui materiali e sulle risorse rinnovabili, proprio lì, dove si concentrano tante persone, si inciderebbe molto di più, ma soprattutto si potrebbe salvaguardare una percentuale molto più alta di superficie di altro territorio».

Il biologo statunitense Edward Osborne Wilson, che scrisse il noto libro Biofilia. Il nostro legame con la natura, ideò, sulla base di ricerche e calcoli fatti da matematici e statistici di Howard, il modello «metà della terra», il quale ipotizza che se noi riuscissimo a proteggere debolmente (cioè non in modo estremo abbandonando quelle aree, ma comunque smettendo di inquinare, di deforestare, eccetera) metà della terra, oceani inclusi, l’estinzione della biodiversità rallenterebbe sino ad arrivare ad appiattirsi.

«L’Europa – ha spiegato Pievani – è al 17% di territorio protetto, l’Italia è al 19%, grazie a tante aree marine e parchi (ndr.: in Svizzera le foreste coprono il 31% del territorio; e le zone protette di importanza nazionale corrispondono comunque a circa il 23% del territorio svizzero). Bisognerebbe quindi arrivare entro il 2030 al 30% del territorio protetto ed entro il 2050 al 50%; e io credo che non sia un’utopia. Allo stesso tempo va potenziato un filone poco tenuto in considerazione fino a oggi, ovvero il cosiddetto urban ecology, vale a dire la valorizzazione della biodiversità già presente nelle città che può essere migliorata e diversificata, ad esempio con riforestazioni intelligenti, corridoi faunistici, e tante altre soluzioni».