Alleanza possibile, anzi necessaria. Gli effetti si vedono proprio in Ticino dove, e non da oggi, gli edifici scolastici fanno notizia ottenendo la curiosità, l’ammirazione o le critiche che spettano a un’opera di prestigio. È il caso, quest’autunno, della sede delle Elementari, a Massagno, che propone un buon esempio di ristrutturazione. Si trattava di adeguare un edificio del 1969, progettato da Alberto Finzi, alle tecnologie attuali, alle norme di risparmio energetico, ai nuovi indirizzi didattici, e, in pari tempo, salvaguardare le parti valide della costruzione originale. Una soluzione, imposta dalla stessa realtà territoriale, in un paese esiguo fittamente edificato. Ma quest’obiettivo, d’ordine ambientale e persino morale, non deve, però, significare un ostacolo per la creatività innovativa, anzi si traduce in uno stimolo. Lo dimostra, appunto, l’intervento degli architetti luganesi, Pia Durisch, Aldo Nolli, Sandra Giraudi, Felix Wettstein, che, in quest’operazione hanno lasciato un loro segno evidente, sia all’interno sia verso l’esterno, creando uno spazio aperto all’intera collettività.
Non demolire, non mangiare terreno, ricostruire è diventato, insomma, il comune denominatore per un’architettura sensibile ai mandati dell’edilizia pubblica, in particolare nell’ambito scolastico, luogo, per definizione, educativo, chiamato a impartire una lezione, destinata a tutti. Ne è convinto Pietro Boschetti che, lo scorso anno, ha affrontato la sfida di rinnovare conservando, con la ristrutturazione delle Elementari di Camorino, da lui progettate con il fratello Alfonso, nel 1978. Racconta: «Bisognava rimettersi in relazione con il passato, dando vita al nuovo, sperimentando un linguaggio che accomuna pedagogia e architettura e creando spazi funzionali e accoglienti». Per ampliare la superficie fruibile, destinata a un numero crescente di allievi, Boschetti ha scelto la sovraelevazione dell’edificio: «Mi sembrava uno sviluppo naturale, come un albero che cresce». In tal modo, si è evitato di sottrarre terreno all’esterno, valorizzando il giardino che ha potuto precisare la funzione di area ricreativa per gli allievi e punto d’incontro per il tempo libero, in una zona accogliente, circondata dagli alberi, con un bel pavimento di porfido, panchine, abbellita dalla scultura di Aldo Ferrario, figura simbolica di un giocoliere. A indicare che anche l’estetica deve avere la sua parte nel processo educativo. E con l’estetica, è evidente, in quest’operazione di restyling, la preoccupazione ecologica, confermata dall’uso esclusivamente di materiali naturali, legno, pietra, metalli, in particolare la luce zenitale, diffusa dal lucernario, centro e marchio dell’edificio. Con ciò, Camorino si è attribuita la qualifica di «Città dell’energia», pulita ovviamente.
Si tratta, del resto, di un impegno ormai condiviso da una generazione di architetti consapevoli delle loro responsabilità nei confronti del luogo dove operano, e tanto più quando si progettano edifici scolastici. Dichiarava recentemente Renzo Piano: «Ogni scuola, dev’essere un presidio di sostenibilità, si deve costruire con leggerezza, e creare il bello, qualcosa che s’impara attraverso esempi concreti». Che, sia detto con giustificato orgoglio, in Ticino non mancano.
Il nostro Paese ha, infatti, alle spalle una lunga tradizione, tanto da poter parlare di una sorta di vocazione innata, che ha lasciato tracce ben visibili nell’edilizia scolastica, diventata da oltre mezzo secolo un terreno di sperimentazioni d’avanguardia. Già, nel 1958, in via Lavizzari a Bellinzona, sorse la sede dell’allora ginnasio, poi scuola media, progettato da Alberto Camenzind, considerato con Augusto Jäggli e Rino Tami, fra i «padri» della grande stagione architettonica ticinese. A partire dagli anni 60/70, gli esempi si sprecano: Dolf Schnebli, nel ’63, con il centro scolastico di via Varesi, a Locarno, nel ’70 Galfetti-Ruchat-Trümpy, con l’asilo infantile di Viganello, nel ’74 Ivano Gianola con la scuola materna di Balerna e Tita Carloni con il centro scolastico a Stabio, nel ’77 Mario Botta con le Medie, a Morbio Inferiore, nel ’78, Luigi Snozzi con il centro scolastico di San Nazzaro, nel ’79 Livio Vacchini con la palestra ai Saleggi. E via enumerando l’ormai storico periodo delle «scuole firmate», che, se coincise con gli anni del boom economico, molto deve anche alla sensibilità di alcuni politici. Fra cui Franco Zorzi che affidò la consulenza estetica per le autostrade a Rino Tami.
Tempi lontani e irripetibili? Non proprio. Nel documento «La scuola che verrà», oggetto per altro di risapute controversie, si sottolinea l’importanza del rapporto fra contenuto e contenitore: e quindi la necessità di «adattare gli edifici e l’arredamento degli spazi educativi alle evoluzioni didattiche e strutturali». In altre parole, costruire luoghi in grado di favorire forme d’insegnamento e d’apprendimento alternative rispetto al passato: aule dove la rigida separazione fra docenti e allievi, il maestro in cattedra e i ragazzi dietro i banchi, è sostituita dalla disposizione a cerchio, in cui nasce un’atmosfera di scambi diretti e spontanei. Inoltre, s’impone la necessità di allestire aule laboratorio, in gergo FabLab, destinate ad attività di gruppo, per promuovere l’utilizzo di strumenti digitali, non fini a se stesse, evitando derive maniacali, oggi diffuse. E, quindi, con l’obiettivo di stimolare il recupero della manualità artigianale, in forme attuali, e, più in generale, sollecitare curiosità culturali. Da questo punto di vista, la scuola è chiamata svolgere un ruolo d’apripista.
Le buone e belle scuole non sono, sia chiaro, una nostra esclusiva regionale. Gli edifici, dove «bambini e adolescenti stanno bene», come si leggeva in un recente numero della rivista del Touring, appartengono al paesaggio scolastico nazionale, nelle grandi città come nelle località minori. Un privilegio che, in un’epoca di contagiosi malumori, dovrebbe indurre all’ottimismo. E che ha alle spalle un’esperienza di lunga data e porta il nome di un precursore, spesso dimenticato. Fu Alfred Roth, che, negli anni 50, stabilì i principi di cui doveva tener conto l’architetto che progettava una scuola: «Evitare edifici monumentali, costruire un edificio che deve contribuire alla formazione del bambino in senso allargato, non una casa ma un complesso, dotato di piscine, campi sportivi, a contatto con la natura». Allora, lo considerarono un visionario e uno sprecone.