I ricordi sono le tracce che la vita lascia dietro di noi. Possiamo ripercorrerle, tornando nei luoghi del passato, riascoltando voci scomparse e percependo, ancora, nella nostra mente, odori e sapori perduti. La memoria è un arcipelago frammentato: forma la nostra identità, ci rende ciò che siamo. La neurobiologia ha fatto grandi passi avanti, negli ultimi anni, per capire come funzionano i nostri ricordi da un punto di vista fisiologico. In un libro, appena pubblicato dal Saggiatore, Genetica dei ricordi. Come la vita diventa memoria, il neurobiologo Andrea Levi – ha lavorato in diversi centri di ricerca, tra questi: Conway in Irlanda; Weizmann in Israele; NIH negli USA – indaga il cervello e suoi meccanismi di «produzione» dei ricordi.
Andrea Levi, perché la memoria è importante per la nostra identità?
Per rispondere è necessaria una premessa: ci sono diversi tipi di memoria, con funzioni specifiche. Ad esempio, la «memoria a tempi brevi» permette di mantenere un’informazione appena acquisita per pochi secondi, la durata necessaria per rammentare un numero di telefono e digitarlo. Altre memorie, come imparare ad andare in bicicletta, invece, permangono per tutta la vita, ma sono «implicite», operano cioè indipendentemente dalla nostra coscienza. Esistono poi le «memorie esplicite a lungo termine», in grado di richiamare intenzionalmente alla coscienza un ricordo. Questi ricordi riguardano sia nozioni e concetti appresi nel corso della vita, che plasmano la nostra visione del mondo e la nostra appartenenza sociale, sia avvenimenti personali con un contenuto emotivo, che ci rendono «unici», distinti dagli altri esseri umani.
Come nascono i ricordi?
Il primo a definire la memoria in termini moderni è stato, probabilmente, lo zoologo tedesco Richard Semon, agli inizi del Novecento. Per lo scienziato, la memoria è «la traccia materiale lasciata nel cervello da un’esperienza personale». Tuttavia, Semon non era in grado di spiegare come funzionasse la memoria a livello molecolare perché, all’epoca, gli studi scientifici erano ancora insufficienti. Venendo ai giorni nostri, invece, la visione comunemente accettata è la «teoria Hebbiana», dal nome del neuroscienziato canadese Donald Hebb che l’ha ideata. Secondo questa tesi, il nostro cervello reagisce agli eventi esterni attivando un certo numero di cellule nervose (i neuroni) che sono direttamente o indirettamente collegate tra di loro. Il fatto di venire «azionate» insieme rafforza le loro connessioni. È sufficiente che alcuni neuroni si rimettano in funzione, in risposta a un certo input, per fare sì che anche gli altri si riattivino. Quindi, ad esempio, rivedere la foto di una nonna oppure sentire il profumo del dopobarba usato da un nonno, ci farà «rivivere» i ricordi collegati ad esperienze vissute con loro.
Di che cosa è fatta la memoria?
Seguendo la teoria Hebbiana, possiamo considerare la memoria come composta da un «hardware», costituito dalle connessioni tra i neuroni nel nostro cervello, e da un «software» che corrisponde al rafforzamento delle connessioni tra quei neuroni che sono stati contemporaneamente attivati da un particolare evento.
Perché ricordiamo alcune cose e ne dimentichiamo altre?
Ci sono delle ragioni fisiologiche. «Hardware» e «software» si possono rovinare, portando, rispettivamente, alla morte di alcuni neuroni e all’indebolimento delle connessioni. A questo proposito è opportuno distinguere tra un ricordo perso per sempre (la sua traccia nel cervello non esiste più) e quello che non si riesce a riportare alla memoria («quel nome c’è l’ho sulla punta della lingua, mi verrà in mente più tardi»). Ma c’è anche un’altra possibile risposta a questa domanda. Da un punto di vista darwiniano, quasi tutte le nostre caratteristiche, fisiche e mentali, sono il risultato della selezione naturale, ossia esistono perché sono vantaggiose. Quindi, se è necessario ricordarci dove abbiamo parcheggiato l’auto l’ultima volta che siamo tornati a casa, per poterla ritrovare, non ci è utile (anzi, costituisce uno spreco di risorse ed energie) tenere a mente tutti i luoghi dove abbiamo posteggiato la macchina da quando abbiamo preso la patente. E ancora, ci sono ricordi che ci fanno sentire bene (e in certi casi la nostra mente può decidere, addirittura, di «fare un po’ di photoshop» per abbellirli ulteriormente) mentre altri, legati a traumi che condizionano i nostri comportamenti, ci fanno stare male. In questo secondo caso, rimuovere i ricordi, o ridurre il loro impatto emotivo, rappresenta un vantaggio.
Ricordiamo davvero quello che abbiamo vissuto oppure, ogni volta che pensiamo a un evento passato, lo «ricostruiamo» nella nostra mente?
La seconda ipotesi è più probabile. Ogni volta che ricordiamo, abbiamo l’opportunità di rimodellare il circuito nervoso alla base di ogni specifica memoria. Si pensa, addirittura che, con il tempo, il ricordo cambi la localizzazione in cui viene mantenuto nel cervello. Infatti, si osserva spesso come, con l’età, restino intatti ricordi del passato remoto mentre si perdano quelli più recenti. Si ipotizza, perciò, che «la traccia del ricordo» si possa spostare in una regione del cervello meno soggetta all’usura. Tuttavia, non possiamo escludere che ci siano anche ricordi fedeli alla realtà, a ciò che è realmente accaduto, «scolpiti nella pietra», per così dire.
I ricordi si ereditano?
Questa è una bella domanda. La tentazione di rispondere «sì» è grande. Dal punto di vista darwiniano, l’ereditarietà della memoria appare una risorsa preziosa. Spesso, ricordare il passato ci serve per predire il futuro. Forse, se alcuni di noi hanno un ribrezzo innato per i serpenti, è perché i nostri antenati avevano imparato a loro spese che sono animali pericolosi. In quest’ottica, probabilmente, se gli incidenti stradali continueranno a essere una causa di morte più frequente del morso di una vipera, i nostri nipoti o pronipoti proveranno ripugnanza per le automobili. A parte qualche sparsa evidenza, però, attualmente non ci sono ipotesi in grado di spiegare come i ricordi possano essere ereditati da generazioni successive né prove sperimentali incontrovertibili che ciò accada. Per rispondere, perciò, non ci resta che aspettare i progressi della scienza.