Un minuscolo virus ha stravolto le nostre vite, scaraventandoci in uno stato di incertezza totale. Ha trasformato il mondo del lavoro. Spinto aziende, enti pubblici e dipendenti ad implementare in tutta fretta modalità operative collegate allo sviluppo delle nuove tecnologie, come il telelavoro. Diverse attività si sono fermate, mentre gli operatori del settore sanitario e della vendita dei beni di prima necessità annegano nella fatica e nello stress. Tutti navigano a vista, cercando di tenere a bada la paura di perdere l’impiego e il timore del contagio con mascherine, disinfettanti e pannelli di plexiglas. Ma che effetti provoca questa situazione sulla salute psichica delle lavoratrici e dei lavoratori?
Cerchiamo di capirlo insieme a Stefania Mastrillo, psicologa del Laboratorio di psicopatologia del lavoro, un servizio attivo dal 2006 in seno all’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC) rivolto a tutte le persone che manifestano un disagio importante a causa di una situazione lavorativa problematica. «Nelle ultime settimane abbiamo osservato una leggera crescita delle richieste di aiuto», afferma la nostra interlocutrice. «Si tratta di casi riconducibili in un qualche modo al Coronavirus. In primo luogo la pandemia ha contribuito ad inasprire tensioni e conflitti interpersonali che caratterizzavano già in precedenza alcuni contesti lavorativi, rendendo spesso necessario il distacco temporaneo del dipendente dal posto di lavoro o addirittura, in alcuni casi, lo scioglimento del rapporto professionale». Le assenze sono uno dei motivi più frequenti di discussione, precisa Mastrillo. Sono parecchi infatti i collaboratori in malattia o in quarantena per periodi prolungati. Dirigere un’impresa si fa dunque più complicato, il lavoro per chi rimane aumenta e la tensione inevitabilmente sale. «Spesso inoltre la comunicazione aziendale non è gestita in maniera ottimale: con i dubbi e le preoccupazioni aumentano anche i dissidi. Ci rendiamo conto che non è facile trovare una bussola nella marea di informazioni che ci circondano. Le domande sono tante. Cosa fare se un dipendente risulta positivo al Coronavirus? Quando una quarantena è necessaria per il resto del team? È importante chiarirsi le idee – magari contattando le autorità preposte – e assumere una linea chiara».
Il Laboratorio di psicopatologia del lavoro in questo periodo ha notato anche una tendenza all’incremento degli episodi di disagio dovuti a licenziamenti o a paura di licenziamento connessi all’andamento della pandemia: aumento dei contagi, diminuzione degli affari, tagli al personale. Invece nei pazienti che hanno perso l’impiego prima dell’avvento della Covid-19 è stato riscontrato un peggioramento dei disturbi ansioso-depressivi. In quei casi è drasticamente aumentata la preoccupazione di non riuscire a rientrare nel mondo del lavoro, anche a causa del prolungarsi della pandemia.
Un altro tema che sta emergendo dalle consulenze – osserva Mastrillo – è quello della diffusione dell’home office (se l’attività si svolge al domicilio durante gli orari d’ufficio) e dello smart working (quando il lavoro, organizzato per obiettivi, è caratterizzato dall’assenza di vincoli orari e fisici). «Si tratta di modalità con evidenti lati positivi: favoriscono la flessibilità e l’autonomia, evitano al collaboratore inutili spostamenti e contatti ecc. Ma le zone d’ombra non mancano. Pensiamo alla diminuzione delle relazioni sociali, alla difficoltà di porre dei limiti tra vita privata e professionale. Senza contare che alcuni non erano pronti dal punto di vista digitale e altri hanno dovuto lavorare da casa, coi figli attorno. Inoltre non tutte le aziende possiedono un “protocollo digitale” e hanno dovuto improvvisare soluzioni percepite come stressanti dai dipendenti».
Si rivolgono al servizio operatori di tutti i settori (ristorazione, commercio, sanità, industria ecc.) e di tutte le età, ma la fascia più rappresentata – sottolinea la psicologa – è tendenzialmente quella tra i 40 e i 50 anni. «Si tratta infatti del periodo della vita in cui le persone hanno più paura di perdere il posto di lavoro. Quando si hanno dei figli piccoli e un’ipoteca da pagare le difficoltà assumono un peso specifico maggiore». Donne e uomini chiedono aiuto in egual modo. In ogni caso diversi esperti sostengono che la pandemia ha accentuato le disuguaglianze tra lavoratori e lavoratrici. Sono queste ultime, per la Federazione Associazioni Femminili Ticino Plus (FAFTPlus), ad essere infatti impiegate in maggioranza sia nei settori «caldi» (sanitario e vendita) sia negli ambiti colpiti dalle chiusure (accoglienza alberghiera, ristorazione e turismo). Sempre loro a dover fare i conti con l’accresciuto carico di lavoro domestico e di cura. Ancora loro ad aver perso il lavoro più frequentemente degli uomini. Ma torniamo a Mastrillo: «Chi vive relazioni conflittuali prolungate sul posto di lavoro tende a sviluppare un disturbo dell’adattamento. Arriva cioè al punto di non riuscire più ad adattarsi alla situazione, superando la soglia di tolleranza, non disponendo più di risorse personali per gestirla. I nostri pazienti possono sviluppare sintomi correlati alla situazione quali insonnia, irritabilità, stati ansiosi, emicranie, perdita di peso, gastriti ecc. Alcuni sprofondano in episodi depressivi più importanti: non riescono ad alzarsi dal letto, piangono in continuazione, si isolano e non riescono più a comunicare con la famiglia e men che meno con il datore di lavoro». Spesso arrivano al Laboratorio troppo tardi, indirizzati dal medico di famiglia o dal sindacato (talvolta sono le stesse aziende a segnalare la situazione di conflitto). «A quel punto il percorso di guarigione si rivela molte volte lungo e difficoltoso mentre magari la relazione col datore di lavoro è compromessa. Da qui l’importanza di affrontare i problemi per tempo, rivolgendosi al medico di famiglia, a degli specialisti o al Laboratorio non appena emergono dei sintomi».
Il team del Laboratorio propone una guida alla ricerca di soluzioni concrete, fornendo gli strumenti per accedere alle risorse disponibili dell’individuo o per meglio affrontare le decisioni difficili. «In seconda battuta diamo dei consigli su come affrontare la situazione, rispettando la volontà del collaboratore. Se quest’ultimo ci dà il permesso coinvolgiamo il datore di lavoro, il medico di famiglia, il legale ecc. Nel caso il paziente decida per il suo benessere psicofisico d’interrompere la relazione di lavoro, lo sosteniamo nei passi da intraprendere successivamente, aiutandolo ad immaginarsi in un nuovo progetto professionale. Se la problematica lo richiede, ci appoggiamo inoltre al medico psichiatra del Servizio psico-sociale per una prescrizione farmacologica di supporto. Nel caso di un licenziamento, lavoriamo sul concetto di rinforzo dell’autostima».