Da quando le nazioni hanno siglato l’accordo sul clima di Parigi nel 2015 – che pone gli obiettivi di ridurre le emissioni dei cosiddetti gas serra e di limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5-2°C rispetto ai livelli preindustriali – si sono levate molte voci critiche, più o meno autorevoli, sulla fattibilità delle misure da adottare per raggiungere l’obiettivo.
C’è chi giudica questo compito semplicemente impossibile, perché implica la necessità di cambiamenti politici, industriali e sociali troppo drastici e soprattutto troppo rapidi. Non esiste una governanza mondiale e se per uno che fa, c’è anche uno che disfa, non si arriva da nessuna parte. La preoccupazione maggiore sta nella presa di coscienza che, in tutta la storia dell’umanità, la vita dell’uomo non ha mai dovuto affrontare cambiamenti così veloci, anche se la colpa non è solo nostra. Ma proprio per questo possiamo o, meglio, potremmo invertire certe tendenze e limitare i danni.
Il cambiamento climatico è in atto, i suoi effetti sono molto visibili. Ci sono due strategie per combatterlo: ridurre le cause (e si parla di «mitigazione») oppure ridurre gli effetti e l’impatto sull’attività umana (e questo è «l’adattamento»). Se riuscissimo ad applicarle assieme, sarebbe tanto di guadagnato. Ne parleremo qui, su «Azione», in una piccola serie di quattro articoli, che presenterò in altrettanti capitoli, a partire dal presente. Richiameranno con un po’ di approssimazione i quattro elementi: il fuoco, la terra, l’aria e l’acqua, con i problemi che si legano ai cambiamenti in questi ambiti.
Poniamo subito l’accento sulle differenze tra le due strategie per combatterli. La mitigazione, cioè la riduzione delle cause (come la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra), è lenta e ci vuole tempo per stabilizzarla. Necessita di uno sforzo globale e porta effetti globali. L’adattamento, invece, è locale: per questo è più mirato ed efficace a breve termine.
L’importanza di quello che viene definito il «Paris agreement», l’accordo di Parigi, è l’aver messo sullo stesso piano adattamento e mitigazione per tutti i Paesi, da quelli in via di sviluppo a quelli sviluppati. Finalmente a tutti si dà la stessa importanza, almeno sulla carta. Perché l’effetto del cambiamento climatico colpisce tutti, senza distinzioni.
Parliamo dunque del fuoco, per esempio, che negli ultimi anni e anche di recente con incendi disastrosi, ha colpito come non mai la California, l’Indonesia e il nostro Ticino. Sono la frequenza e la violenza accresciuta di questo fenomeno che destano preoccupazione. Gli incendi fanno parte dei fenomeni naturali e si sviluppano per cause e concause che dipendono da molti fattori.
Per quanto riguarda il nostro territorio, nel portale sui pericoli naturali della Confederazione svizzera si legge che il 90% degli incendi di boschi è dovuto all’uomo (mozziconi di sigaretta accesi, focolari non spenti, ecc.) e solo il 10% è riconducibile a cause naturali (fulmini). Le regioni più minacciate sono il Vallese, i Grigioni, il Ticino e le valli esposte al favonio. Se ci sono prolungati periodi di siccità e temperature torride, che inaridiscono il suolo, gli alberi e gli arbusti, i fattori di rischio aumentano il pericolo.
Come possiamo intervenire preventivamente? Bisogna migliorare la gestione dei boschi. Le foglie lasciate intatte al suolo costituiscono un combustibile che, se secca in fretta, favorirà la propagazione delle fiamme. A questo proposito in determinati luoghi nel mondo si adotta la strategia degli incendi controllati, cioè quella di bruciare la biomassa più regolarmente per evitare accumuli. Tuttavia bisogna sempre ricordare che gli incendi fanno parte delle dinamiche naturali, alle quali diversi ecosistemi si sono adattati e si adattano.
Per esempio vi sono alcuni semi che germinano nel terreno bruciato oppure che vengono stimolati dal calore per potersi schiudere. Moltissimi vegetali dipendono dal fuoco per la loro esistenza. Un’altra constatazione può essere quella che le piante più grandi resistono al fuoco, se non è troppo violento, perché si brucia solo parzialmente la corteccia e la pianta si rigenera. In una nuova gestione di bosco potrebbe essere buona norma ripiantare specie adattate e più resistenti al fuoco. In condizioni normali un bosco di latifoglie (querce, faggi, aceri, ontani) favorisce meno gli incendi rispetto a un bosco di conifere. Una piantagione di abeti rossi, per esempio, ha una maggiore propensione per gli incendi; d’altronde anche l’olmo, il frassino e il tiglio sono pure specie sensibili, tanto che la Società forestale svizzera e l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio ne denunciano la diminuzione in questi ultimi anni.
Di buono almeno c’è che da noi il pericolo per l’uomo è limitato, perché la legislazione svizzera vieta la costruzione di edifici nei boschi. Non è così in California, dove nel novembre scorso 100mila ettari di foreste e terreni, che ospitavano oltre 7mila caseggiati, sono bruciati in enormi roghi alimentati dal secco e da forti venti. Negli Stati Uniti si costruisce molto col legno. Ciò che genera decine e decine di morti, migliaia di sfollati. Ebbene, la frequenza degli incendi in tutto l’ovest degli USA è quadruplicata negli ultimi cinquant’anni e non può essere un caso. Inoltre si è moltiplicata per sei l’estensione delle superfici bruciate, e per cinque la durata degli incendi.
Questi fattori hanno fatto cambiare strategia anche ai vigili del fuoco. Mentre in passato si pensava che il meglio fosse spegnere un fuoco il prima possibile prima che diventasse troppo grande, adesso si preferisce intervenire meno drasticamente, limitandosi a controllarne il perimetro e lasciando sfogare l’incendio verso le direzioni meno rischiose per la popolazione. Tutto ciò perché, come ricordato, le fiamme hanno una funzione rigenerativa e se si interviene subito – come si faceva – si lascia a terra un bosco sporco, con un grande accumulo di materiale secco non bruciato, potenzialmente più pericoloso per attizzare o propagare futuri immancabili incendi.
Va da sé che non bisogna ostinarsi a riempire di case le zone a rischio, diventate tali anche per fattori ambientali che il cambiamento climatico ha favorito. Il periodo siccitoso in California dura da circa sette anni, accompagnati da un costante deficit idrico, da bacini artificiali ormai prosciugati e da una moria di piante importante negli ultimi tre anni. I dati sono misurati a terra e suffragati da continui rilevamenti effettuati dai satelliti della NASA.
Quanto all’Indonesia, lo sapete: per guadagnare spazi all’agricoltura e piantare redditizie palme da olio si sono bruciate enormi aree di foresta tropicale, alterando equilibri millenari e mettendo a rischio numerosi ecosistemi.
La politica e la ricerca del profitto stanno ignorando parecchi campanelli d’allarme.