È un cammino sempre più arduo, quello del giornalismo. Ce lo dicono, con una certa costanza, analisi e ricerche condotte su tutto ciò che ruota attorno al mondo dell’informazione. Di recente l’università di Zurigo ha pubblicato il proprio studio annuale sulla qualità dei media in Svizzera. Tra i tanti dati messi in evidenza val la pena citare quello dei cosiddetti «deprivati di notizie», persone che non si informano, senza che questo sia per loro un problema. Ebbene in Svizzera questa categoria rappresenta il 38% della popolazione, percentuale che cresce di anno in anno. Lo scorso mese di settembre la fondazione francese Jean Jaurès, un think tank che si dice al servizio del progresso e della democrazia, ha pubblicato un proprio studio sul rapporto tra cittadini e giornalismo ed è arrivata alla conclusione che quasi il 50% del pubblico francese dice di essere stanco, affaticato dall’informazione e dalla valanga di notizie che ogni giorno circola sulla stampa tradizionale o sui mezzi tecnologici che abbiamo ormai costantemente a disposizione.
Non per nulla questa ricerca parla di «sovraccarico informativo» e persino di «info-obesità». «Il pubblico non ha del tutto torto. Il bombardamento informativo e un modello di giornalismo basato sulla notizia spot, sulle breaking news, sulla corsa contro il tempo anche a discapito della verifica della notizia, dell’approfondimento, dei “come” e dei “perché” generano insoddisfazione tra il pubblico e sfiducia nei confronti della categoria», ci dice Laura Silvia Battaglia, direttrice del Master di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano, giornalista e reporter per il «Washington Post» e per la RSI. Se il pubblico ha la sua parte di ragione va però anche detto che le redazioni non possono chiudere gli occhi. Viviamo in un periodo di crisi multiple: pandemia, guerra in Ucraina, inflazione, crisi energetica e climatica, per citare solo le principali sfide del momento. Il giornalismo non ne dovrebbe riferire, anche con titoli di richiamo – solo per evitare al pubblico il rischio di un sovraccarico di informazioni? «Certo che il giornalismo ne deve parlare, ma la chiave sta nel come. Di sicuro non 24 ore su 24, con toni urlati, assertivi, sensazionalistici, catastrofisti, appiattendo tutto sulla parola chiave (di volta in volta guerra, pandemia…) perché aiuta ad aumentare il numero di clic digitali o incrementa l’audience nei dibattiti televisivi», fa notare Laura Silvia Battaglia.
Il dato della ricerca francese e quello sulla qualità dei media in Svizzera ci dicono sostanzialmente una cosa: il fossato tra pubblico e mondo dell’informazione si sta allargando sempre più. Forse anche perché la vita di tutti noi si è fatta più frenetica, diventa così difficile trovare tempo da dedicare all’informazione, ci si accontenta dei titoli, dei push che riceviamo sui cellulari o di quanto troviamo con un colpo di pollice sui principali social media. Un modo di vivere l’informazione in antitesi rispetto a quanto affermava Ignacio Ramonet, negli anni ’90 del secolo scorso, con il suo S’informer fatigue, titolo di un suo editoriale apparso nell’ottobre del 1993. Il mondo dell’informazione era molto diverso da oggi ma Ramonet sottolineava concetti che rimangono validi anche nel bel mezzo della rivoluzione digitale che stiamo attraversando. «Il fatto stesso di volersi informare senza sforzo è un’illusione – scriveva – Occorre mettere in conto anche la fatica, ma questo è il prezzo da pagare affinché il cittadino possa acquisire il diritto di partecipare in modo intelligente alla vita democratica. (…) Si tratta di un’attività tutto sommato nobile, in una società democratica, a patto che il cittadino accetti di consacrarvi parte del suo tempo e della sua attenzione». In altri termini Ramonet alzava l’asticella e chiedeva fatica, in nome anche della democrazia. Una sfida di ieri che rimane tale oggi ma con una difficoltà in più, dobbiamo fare i conti con il flusso di notifiche, post e informazioni, spesso non giornalistiche, che ci arriva attraverso la digitalizzazione e le piattaforme social. E i dati ci dicono che stiamo assistendo – tra «deprivati di notizie», disinformazione e sovraccarico informativo – ad una risposta contraria rispetto agli auspici di Ramonet. Non la «fatica di informarsi» ma il minor sforzo possibile nel seguire l’attualità.
In questo contesto come possono riuscire le redazioni – e i giornalisti con il loro lavoro – a riportare queste persone verso l’informazione? Domanda rivolta ancora a Laura Silvia Battaglia. «Credo che la ricetta possa riassumersi così. Acquisire una forma mentis naturalmente curiosa del mondo, non giudicante, non rispondente a logiche e ideologie preordinate, ed eliminare così stereotipi duri a morire. E poi occorre promuovere la digital literacy – la competenza digitale – a partire dalle scuole elementari, perché è anche vero che il cittadino è passivo nella fruizione dei media e anche non educato a eseguire un fact-checking di quanto trova indicizzato su internet e sui social. E aggiungo anche che si deve cambiare totalmente il modello di business nel giornalismo: meno breaking, meno dirette, meno sensazionalismo; più slow news, approfondimenti e investigazioni. In sostanza, iniziare ad accorgerci che, nelle cinque W, quella più importante è il perché, lasciata oggi sempre per ultima». Insomma tornare alle cinque domande di fondo, ai cinque pilastri del giornalismo, che in inglese iniziano tutti con la lettera W: chi? cosa? dove? quando? e perché? Con un approfondimento, appunto, sul come e sul perché si è arrivati a un determinato fatto. Insomma i push fanno ormai parte dello schema informativo di oggi ma occorre far sempre più leva sulla spiegazione, sul mettere a disposizione del cittadino gli strumenti per capire l’attualità. Siamo dentro la rivoluzione digitale, non esistono ricette predefinite ma forse il «sovraccarico dell’informazione» si combatte anche così. E così si stimola pure la volontà dei cittadini a fare un po’ di fatica. Lo richiede l’informazione – e anche la democrazia – in un mondo, questo è vero, sempre più complesso.