Restiamo per sempre un po’ adolescenti. Nelle relazioni con gli altri, reali o virtuali che siano, seguiamo gli schemi di comportamento di quando avevamo 16 anni. A seconda dei modelli familiari, del nostro aspetto, del carattere, abbiamo imparato a provare ammirazione o invidia per chi era più popolare di noi, a sentirci isolati e incompresi, a nasconderci dietro la timidezza, oppure, al contrario, a provare euforia e onnipotenza per essere tra i più «fighi» della scuola, ad adottare strategie per mantenere alta l’ammirazione degli altri nei nostri confronti.
A sostenere che viviamo, per certi aspetti, sull’onda di un’adolescenza senza fine, è Mitch Prinstein, professore e direttore di Psicologia clinica all’Università del North Carolina a Chapel Hill, Stati Uniti. Il suo saggio, appena pubblicato, dal titolo Popular: The Power of Likability In A Status-Obsessed World (Fama: il potere di piacere agli altri in un mondo ossessionato dal prestigio), è il risultato di vent’anni di studi e ricerche sui concetti di «popolarità». Con quest’ultimo termine si può intendere sia l’opinione positiva che amici e colleghi hanno di noi, sia il «prestigio», cioè il potere e l’influenza che abbiamo sugli altri.
Come scrive Prinstein, il bisogno di popolarità è biologicamente determinato. Vogliamo sentirci inclusi nel gruppo, non essere emarginati. Ci sono però due tipi di fama, una «buona» e l’altra «cattiva». La prima, connaturata al genere umano, per come si è evoluto nel corso dei millenni, è quella che porta gli altri a volere stare in nostra compagnia, a divertirsi con noi, e sentirsi a proprio agio, a darci fiducia. La seconda, invece, arriva dal nostro periodo da teenager e c’entra con la reputazione, la visibilità, l’influenza sugli altri, il potere.
Pensando al mondo dei social media, alle star di Instagram, a chi fa record di like su Facebook, oppure ha uno stuolo di follower su Twitter, si può dire che questa seconda forma di fama ha a che fare con la celebrità. E non porta a molto di buono – tranne per chi riesce a farne un mestiere – perché diventa la causa di problemi di relazione, dipendenza da sostanze o alcol, depressione, rapporti di amicizia e di coppia non duraturi. In generale, secondo uno studio realizzato da un team di ricercatori dell’Università della Virginia, che ha seguito 184 bambini per dieci anni, quelli che al liceo erano i più ammirati se la passano male, in età adulta. Sembra molto meglio avere fatto parte della schiera di chi era un po’ nerd, e cioè della maggioranza, visto che il 95 per cento delle persone non faceva parte del gruppo degli eletti, alle superiori.
Ci sono però delle eccezioni: c’è chi riesce, attraverso la popolarità «buona», ad ottenere anche la fama, come conseguenza per così dire naturale. Si tratta di un’abilità che, in genere, si eredita: i genitori che erano popolari a scuola hanno figli altrettanto brillanti. Resta sempre il rischio di una forzatura di fondo: per piacere agli altri, infatti, è importante non mostrare di essere troppo assorbiti da se stessi, ma si deve dare l’idea che lo charme sia un prodotto del caso, un dono del destino. Raramente, però, le cose stanno così: spesso chi gode di un’alta reputazione è semplicemente abbastanza abile da nascondere la fatica e l’ambizione che si cela sotto la maschera di spontaneità e leggerezza. E c’è un prezzo da pagare: se non si è sinceri con gli altri, si rischia di instaurare rapporti falsi e di sprofondare, nel lungo periodo, nella solitudine.
I meccanismi descritti da Prinstein sono evidenti quando si osservano i comportamenti sui social media. Come ha spiegato il professore di Psicologia clinica al sito americano di informazione Refinery29, «ci sono persone che usano i social media cercando i feedback degli altri, in un modo che enfatizza il confronto sociale. Questo è il bacio della morte che può portare un rischio di depressione. Se si va sui social guardando gli altri e mettendosi in competizione, chiedendosi ogni volta se si è popolari come loro, si rischia davvero di stare male. Di recente col mio team di ricerca abbiamo fatto degli studi su quelli che vengono definiti gli “arrivisti digitali”, cioè persone che vanno esplicitamente sui social in cerca di quanta più attenzione possibile. Gli utenti più giovani che hanno questo approccio rischiano un crollo, con conseguente abuso di sostanze e forme di autolesionismo. Certamente i social media possono essere usati in ottimi modi, per rafforzare le relazioni con amici e conoscenti, ma è davvero facile “andare in fissa” con l’aspetto della fama e del prestigio perché sono piattaforme create proprio per essere indicatori numerici di quanto piacciamo, secondo criteri che la società non dovrebbe enfatizzare. Sono davvero preoccupato per il messaggio che stiamo dando alle nuove generazioni, potrebbe essere la ricetta per il disastro».
Difficile dargli torto, se si considerano le classifiche dei cosiddetti influencer, chi spopola su Instagram e diventa milionario postando foto di sé in ogni momento della giornata, da quando si lava i denti a quando mangia, collezionando commenti e like, oppure si «specializza» su un aspetto specifico, rendendolo unico. Così ha fatto Jen Selter, ventenne da 11,4 milioni di follower e 13mila euro a post promozionale, famosa per il suo fondoschiena da urlo – onnipresente nelle sue foto – frutto di esercizi estenuanti, come racconta lei stessa, anche nel bel mezzo della notte. Un altro modello di popolarità per le nuove generazioni è l’influencer Huda Kattan, quasi 21 milioni di follower su Instagram, 18mila dollari per ogni post sponsorizzato, che realizza tutorial su come truccarsi: nelle interviste dice di «alzarsi alla mattina con una voglia matta di provare nuovi prodotti e nuove marche». Modelli che rendono sicuramente difficile la decostruzione dei meccanismi adolescenziali e che, nonostante le raccomandazioni di Prinstein, sembrano essere sempre più popolari.