Nella primavera del 1635 alla pittrice Giovanna Garzoni venne chiesto di eseguire il ritratto in miniatura di un principe africano. Nata in una famiglia di raffinati artigiani (il nonno materno era orefice, lo zio pittore), che le aveva offerto la possibilità di apprendere il mestiere della pittura, nonché il privilegio – raro per una donna del XVII secolo – di formarsi una cultura, studiando musica, poesia, calligrafia, è oggi apprezzata soprattutto per il realismo delle sue nature morte. Stupefacente per noi, ma necessario in età barocca, quando la meraviglia per l’imitazione della natura e la capacità di ingannare l’occhio erano i presupposti stessi di quella pittura. Dipingeva fiori, frutta, stoviglie, insetti, animali, con uno spiccato naturalismo che tradiva un gusto quasi scientifico per la verità delle cose. I suoi quadri, piccoli, facili da esporre e da trasportare, avevano molto mercato, tanto che poteva stabilirne il prezzo lei stessa. Garzoni era nata ad Ascoli Piceno, nelle Marche, da genitori veneziani; aveva soggiornato a Venezia, Napoli e Roma, ma dal 1632 viveva a Torino, dove la duchessa Cristina di Francia l’aveva invitata alla corte dei Savoia, per eseguire ritratti e miniature di soggetto sacro e profano. Fu a Torino che dipinse la prima natura morta (un piatto di ceramica con frutti) – il genere che le avrebbe dato la fama.
Il principe però non era una ciliegia, una conchiglia, una cosa inanimata. Zaga Christos – ovvero Sägga Krəstos – era misteriosamente apparso al consolato veneziano del Cairo nel 1632. Pretendeva di essere il figlio dell’imperatore d’Etiopia, il grande regno cristiano d’Africa. Assassinati il padre Clarso Yaqub (che si vantava di discendere da Salomone e dalla regina di Saba) e il fratello maggiore dall’imperatore rivale Susenyos, era fuggito – scampando ai mercenari stranieri che lo braccavano – nel regno musulmano del Sudan, dove era stato bene accolto (finché, per evitare il matrimonio con la figlia del sultano, che implicava la sua conversione all’Islam, era dovuto fuggire ancora). Passando dal Darfur, attraverso il deserto era approdato in Egitto. Dopo un pellegrinaggio a Gerusalemme e innumerevoli peripezie si rifugiò in Italia. Garantivano per lui i monaci francescani e Marco Lombardo, un nobile veneziano che, catturato giovanissimo dai turchi, si era convertito all’Islam, aveva guerreggiato per il pascià d’Egitto e infine era riuscito a tornare al servizio della Serenissima.
Zaga Christos era insieme un esule dall’identità dubbia e un pretendente all’impero – pericoloso perché edotto degli intrighi dei gesuiti che avevano alimentato, e a suo dire scatenato, la guerra civile in Etiopia. Ricevuto con grandi onori nel regno di Napoli, arrivò a Roma nel 1633, coccolato dal giovane cardinale Antonio Barberini, nipote del papa, e dal papa stesso, Urbano VIII. Gli chiesero di scrivere la sua storia, per verificare il suo racconto, così che quella di Zaga Christos è la prima autobiografia di un africano. La cronologia si rivelò erronea, l’assenza di riscontri insormontabile. Ma l’autore era colto e di nobile origine, e tanto bastò a dargli credito. Lo misero sotto l’occhiuta protezione dei francescani, rivali dei gesuiti, nei loro conventi – prima in San Francesco a Ripa, a Trastevere, poi alle pendici del Gianicolo.
Come testimoniano altri ritratti, sculture e disegni, Zaga Christos non fu l’unico africano del XVII secolo a essere accolto da papi e principi. L’inferiorità della sua razza non era stata ancora teorizzata, benché sul «nero» si addensassero già le ombre. Zaga Christos era comunque molto religioso, perfino mistico, giovane, bello e appassionato. A Roma s’innamorò, ricambiato, di una clarissa del convento francescano di San Cosimato a Trastevere, Caterina Massimi. Peccato mortale ma assai diffuso, poiché nei conventi, cui si accedeva versando una dote cospicua, finivano le figlie eccedenti dell’aristocrazia, spesso belle e inquiete: Caterina, che apparteneva a una delle più potenti famiglie romane, era degna dell’amore di un principe. Ma dopo nove mesi, nel novembre del 1633, Zaga fu costretto ad abbandonarla, perché il papa lo rimandava in Etiopia, dove sperava di insediarlo sul trono. Disperati, i due si scambiarono per anni torride lettere scritte col sangue. (– Continua)