Zaga Christos tuttavia riuscì a differire il ritorno in Etiopia: gli stati europei, lacerati da conflitti politici e religiosi, esitavano a organizzare la missione, e inoltre lui si struggeva per rivedere Caterina. Per qualche tempo vagò nel nord Italia, fermandosi a Venezia e a Mantova. Guarì da un attacco di febbre maligna solo grazie alle cure del medico del duca di Savoia. Ed è a Torino che nella primavera del 1635 posò per il pittore di corte: Giovanna Garzoni.
Lui era un aspirante imperatore di venticinque anni, lei una borghese di trentacinque. Forse era al corrente della sua straziante storia d’amore, di certo Zaga Christos era il primo nero di condizione non servile (paggio, domestico, gondoliere) che avvicinava. Non provò imbarazzo per la novità del soggetto e della situazione. Scelse come supporto la pergamena, e vi dipinse il ritratto a guazzo e acquerello. Poi lo incollò su carta e lo fece incastonare in una cornice d’argento. Il principe etiope dovette posare a lungo per la pittrice, poiché alla conclusione delle sedute era tanto in confidenza con lei da aiutarla a firmare sul retro del foglio – oltre che in italiano – anche nella sua lingua, l’amarico. L’accostamento dei due alfabeti, dei due mondi, è più che inconsueto: unico.
Il ritrattino è un medaglione da portare come un ciondolo. Il giovane ventenne ha crespa capigliatura afro, pelle bruna, un filo di baffetti sul labbro. Il raffinato bavero di merletto lascia intravedere il sontuoso abito sottostante – rosso, con fili d’oro. Zaga Christos è assorto. I suoi occhi sgranati tradiscono un certo stupore. Forse per la perizia della pittrice, forse per l’incertezza del futuro. Non so a chi fosse destinato il ritratto. Nonostante la committenza cortigiana, l’espressione sognante, l’evidente empatia e il formato privatissimo fanno pensare a un dono d’amore.
Zaga Christos non tornò mai in Africa. Partì per la Francia, affrontò le Alpi, bufere di neve e avventure di ogni tipo; seminò scompiglio nella nuova corte (per la regina Anna d’Austria, nota per le infedeltà al marito Luigi XIII, e da lui incuriosita, scrisse una nuova autobiografia); si legò a un’altra donna, Magdalene Alemant – moglie di un notabile parigino, spia o prostituta: le versioni divergono –, le firmò un contratto dal notaio in cui giurava di rinunciare per sempre a Caterina e cercò di fuggire con lei in Inghilterra. Reato che lo rese ulteriormente sospetto. Finì in prigione a Parigi, con l’accusa di essere una spia e un impostore. Anche Giovanna Garzoni, che aveva lasciato Torino nel 1637 alla morte di Vittorio Amedeo, era in Francia. Ma non si rividero.
Richelieu, in altre faccende affaccendato, trascurò di occuparsi della sua liberazione. I giudici e i carcerieri lo trattavano tuttavia con rispetto e non dubitavano che il giovane nero fosse davvero un imperatore. Infine Richelieu lo fece rilasciare e lo accolse nella propria dimora, a Rueil-Malmaison, dove però Zaga Christos morì quasi subito. Qualcuno ipotizzò il suicidio. Altri il veleno. Era il 1638. Richelieu gli pagò un funerale modesto ma lo fece seppellire nel coro della chiesa.
Sulla sua storia, degna di un romanzo di Dumas, esistono migliaia di documenti, in dodici lingue, dall’arabo al veneziano al geez, ma nessuno saprà mai se Zaga Christos intendeva davvero tornare in Etiopia a riprendersi un trono che neppure era mai stato suo o se voleva solo tornare dalla sua amata, a Roma. Dove finì per tornare Giovanna, stabilendosi, dopo un passaggio a Firenze alla corte dei Medici, nella città eterna, fino alla morte, nel 1670. Pure Caterina gli sopravvisse, e divenne badessa, come destino di una monaca del suo rango. Ma dovette distruggere tutte le lettere che lui le aveva scritto col suo sangue.
(Seconda parte – fine)