Arriva per una sostituzione. La titolare ha subito un’operazione delicata, la terapia la debilita, e dovrà proseguirla per parecchi mesi per sconfiggere la brutta malattia che l’ha colpita: così la segretaria dello studio comunica la novità ai pazienti. Al dispiacere si mischia lo spavento: destabilizza sapere malato chi ti cura. Tuttavia c’è anche sollievo, la ricerca è stata lunga. La dottoressa Carla è medico di base in un paesotto del nord: un migliaio di abitanti sparsi fra il centro storico, le aziende agricole della pianura e le frazioni di collina. Molti anziani, qualche coppia giovane che ha scommesso sul ritorno alla natura, mattoidi e rari bambini. Niente treno, collegamenti scomodi, strada secondaria. Prospettive di carriera zero. Una tomba. Insomma, nessuno accettava. Così alla fine sono stati costretti a prendere Yaya.
I requisiti – laurea, specializzazione, esperienza – ce li aveva, ma la sua domanda era stata scartata. Yaya, alta, dalla voce stentorea, originaria dell’Africa occidentale, è veramente nera. Aveva prevalso il timore che fosse troppo nera. Ma risulta simpatica. Sulla quarantina, parla un italiano elegante, con un seducente accento francese, e ha un sorriso contagioso. Avrebbe una storia istruttiva da raccontare (è arrivata dal Togo via Libia su un barcone, incinta e sola, la sua richiesta di asilo è stata accolta ma ha vissuto anni nell’indigenza e solo Dio, lei dice, l’ha salvata), ma tutti si limitano a notare i suoi denti perfetti e candidi, le forme e la statura: il corpo ingombrante di femmina. Yaya prende possesso dello studio con gioia irrefrenabile. Nonostante sia in Italia da vent’anni, questo è il suo primo lavoro nel pubblico: finora ha trovato impiego solo a contratto, in qualche RSA.
Alla fine del primo giorno la segretaria la trova pietrificata alla scrivania, lo sguardo fisso sullo schermo del computer. Non me lo merito, dice. Vorrebbe piangere, ma si controlla. Esce in dignitoso silenzio. La spiegazione rimbalza dal bar ai social. Si sono già cancellati in dieci dall’elenco: non si faranno mai curare da una negra.
Di solito nello studio c’è la ressa. Molti residenti sono invalidi o malati cronici. Sono anche soli e lì si incontrano, trovano attenzione. Invece, nelle prime settimane, dalla dottoressa Yaya non viene quasi nessuno. Solo i disperati che hanno urgenza di una ricetta e non sanno usare la posta elettronica. Visite a domicilio nemmeno richieste. Yaya chiede consiglio alla segretaria. Forse dovrebbe appendere la sua laurea sul muro? Non l’aveva fatto per non toccare le cose della dottoressa Carla. Ne ha due. Una presa in Togo, prima della fuga. L’altra all’università di Torino. Aiuterebbe, ammette la segretaria, mortificata.
L’ostilità si manifesta con paroline, sussurri, proteste. Chi critica l’incompetenza, chi l’odore. C’è chi chiede verifiche alle autorità competenti, come se Yaya fosse un impostore. Yaya resiste tre mesi, poi rassegna le dimissioni. Non sono pronti, spiega alla segretaria, non riescono ad accettare che proprio una negra sia la persona che può salvargli la vita. Ci vorranno anni, ma io vivo qui adesso, e non posso aspettare.
Alla ASL cercano di dissuaderla. Minimizzano. Le suggeriscono di cercare di capirli. Sono vecchi. Non abituati. Le nere le accettano come badanti, che gli puliscono il sedere, o peggio, quando si vendono sulla statale per dieci euro. Ma hanno bisogno di lei, non li abbandoni. Yaya torna a casa dubbiosa e arrabbiata, chiedendosi perché sia lei a doversi sentire in colpa.
Al funerale della dottoressa Carla piangono tutti, anche Yaya. Spero che le diano il posto da titolare, le dice il figlio. Sa, quarant’anni fa, quando arrivò mia madre, fu la stessa cosa. Non volevano farsi curare da una donna. Sapesse i rospi che ha dovuto ingoiare. Ma era brava. E ce l’ha fatta. Ora tocca e lei. Non si arrenda. Le cose cambiano.
La dottoressa Yaya è rimasta. Lei dice: il giuramento di Ippocrate. Non potevo violarlo. Non sono miei nemici. Ma anche se lo fossero, io li curerei. E li curerò.