Weiblinger, spirito libero e l’incontro con Hölderlin

/ 06.03.2023
di Melania Mazzucco

Nel 1827 Waiblinger si insediò a Roma, nell’appartamento di un palazzetto tutto vetri e finestre, con l’intonaco ocra appena sbiadito, a via del Mascherone 62. Esiste ancora. Il Tevere – a quel tempo privo di argini e indomabile – scorreva poco lontano, ma non so se potesse vederlo dalla finestra. Si sentì subito a casa e divenne per tutti «Guglielmo». Frequentava le osterie, le ragazze e il popolino, ma anche artisti come lo scultore danese Thorvaldsen e il poeta von Platen (che lo sostenne economicamente perché, a differenza di quanto aveva immaginato, non riusciva a mantenersi scrivendo novelle o reportage e si era riempito di debiti). A Roma trovò pure l’amore – perché, ironico, scanzonato e divertente, era bello (in un autoritratto a penna e inchiostro si raffigurò col viso coronato da una zazzera di ricci), e maledetto come Byron, al quale del resto si ispirava. Giovane, straniero, squattrinato e spesso al limite dell’indigenza, nonostante la vita allegra e disordinata che conduceva, nonostante l’irrequietezza che lo spingeva al movimento perpetuo (si spinse da Napoli, dove raccolse canti popolari, e Paestum, fino in Sicilia, dove scalò l’Etna), trovò la concentrazione per scrivere odi ed elegie dall’Italia, reportage di viaggio, una favola (La grotta azzurra) e novelle di argomento italiano insolitamente realistiche e attente alla vita quotidiana della gente (erano un genere convenzionale e stucchevole). Lui si interessava invece alle feste, ai riti popolari, ai canti del Carnevale, a figure originali di indigeni, come l’attrice e improvvisatrice Rosa Taddei. Nel racconto I britanni a Roma inventò la satira del turismo. Ma in Italia Waiblinger trovò anche la malattia. Capitava a molti: per lo più era il colera. Lui invece, a Roma e nelle paludi pontine, contrasse le febbri malariche.

Poteva conviverci. Qualcuno disse che però aveva anche la tisi – morbo inguaribile. Per questo negli ultimi anni scrisse la biografia di Hölderlin – che vale ancora la pena leggere. Perché l’adolescente aveva compreso istintivamente, per affinità ed empatia, il male e il dolore del suo amico e padre spirituale: ma ora poteva raccontarlo – sperimentava la stessa condizione. Anche Hölderlin era stato condannato a una morte precoce. Infatti, se anche morì a 73 anni, ne trascorse ben 37 come un non-vivo: assente a tutto, e soprattutto a sé stesso, spettatore della vita, disperatamente incapace di sopportare il peso del mondo.

Don Guglielmo morì nella sua casa il 17 gennaio 1830, forse di polmonite e fu sepolto nel cimitero acattolico di Roma, il giardino all’ombra della Piramide Cestia dove riposano gli stranieri, i liberi pensatori, gli spiriti erranti. Nel primo centenario della scomparsa (1930) la città di Roma fece apporre una targa in sua memoria, all’altezza del primo piano del palazzetto. Si legge: «Il poeta Guglielmo Federico Waiblinger / Partitosi dalla nativa Germania / in questa Roma immortale / Trovò la patria dei suoi sogni / «qui solamente felice».

La sua opera fu pubblicata postuma dagli amici: oggi è considerato un brillante giornalista di costume e un tipico poeta romantico, fratello ideale di Keats (lui pure venuto a morire giovanissimo a Roma). Un limpido talento, però minore ed epigonale. Ma si spense a 26 anni, quando la maggior parte dei poeti non ha ancora scritto un verso degno. Waiblinger invece ne ha scritti; mi piace ricordare almeno questi: «Metà alla luce della luna, metà nel crepuscolo / Imbrunisce già il campo di macerie / E nell’oscurità ancora cammina / l’ombra di un monaco solitario…»

Gugliemo divenne romano per amore della vita, della libertà e della poesia. Roma fu per lui davvero «la patria dei suoi sogni» – ma anche l’assassina. I poeti non chiedono nient’altro che vivere scrivendo. Per questo la paradossale affermazione «qui solamente felice» è profondamente vera: il luogo in cui si viene a diventare sé stessi è il solo che è davvero nostro.

(Seconda parte – fine)