Qualche giorno fa a Modem su Rete Uno, insieme ad altri colleghi, abbiamo discusso la notizia della «Neue Zürcher Zeitung» di voler restringere i commenti dei lettori ad un selezionato numero di articoli. Il motivo, secondo Oliver Fuchs, responsabile del social media team, sta nel voler dare un taglio ai troppi commenti violenti, sessisti ed offensivi che ledono la qualità della conversazione online. A guardare i 971 commenti, un numero record per la testata zurighese, raccolti dall’articolo online in cui si annuncia la svolta, si direbbe piuttosto che la NZZ vanti una base di lettori molto attenti, responsabili, capaci di fare analisi e critiche costruttive.
Che sia davvero la scelta giusta? Che il motivo siano davvero i messaggi offensivi e non, piuttosto, la difficoltà a gestire la mole di commenti che una testata come la NZZ riceve? Quando Oliver Fuchs in un’intervista alla SRF ha detto «dobbiamo riflettere su quello che possiamo permetterci», ho subito pensato alle risorse in termini di tempo, competenza e personale.
Non è facile moderare i commenti online agli articoli, ci vogliono delle policy precise che regolino la convivenza della comunità, una curation attenta e qualitativa, una moderazione dinamica e puntuale. Per questo, probabilmente, la scelta della NZZ segue una tendenza già avviata da altre testate come il «New York Times» e la «Süddeutsche Zeitung». Alla base c’è l’idea di concentrarsi solo su alcuni temi ritenuti cruciali e di particolare interesse pubblico con lo scopo di migliorare l’attenzione, la qualità del discorso e la capacità di moderare bene lo scambio così che i contributi si tramutino in un valore aggiunto per tutti.
Il «Guardian», da sempre modello d’eccellenza del giornalismo partecipativo, confrontato con gli stessi dilemmi, per comprendere meglio il fenomeno ha svolto una ricerca «The dark side of Guardians comments». E, analizzando i 70 milioni di commenti raccolti tra il 2008 e il 2016, ha scoperto che quelli bloccati, perché non rispettosi delle linee guida stabilite per partecipare alla conversazione, sono solo il 2%. Al di là dei risultati, ciò che qui è rilevante, è l’intento che ha mosso il «Guardian»: capire come meglio gestire la varietà, la specificità e la mole dei commenti senza limitare, ridurre, semplificare, la possibilità di dialogo e di confronto. Riflettendo su questo, in trasmissione, il collega Enrico Bianda di Rete Due ha parlato della necessità dei giornalisti di oggi di saper gestire la complessità. Un concetto sul quale sono tornata a riflettere perché credo sia cruciale e non solo pensando al giornalismo.
La complessità non è solo in Rete ma in ogni sfumatura della nostra vita professionale, sociale, politica e privata, anzi, direi che la complessità è la cifra del nostro tempo. Complessità in termini di molteplicità di opportunità, innovazioni, cambiamenti, scenari e attori politici, questioni sociali e ambientali, strumenti e linguaggi di comunicazione con cui ci confrontiamo. Comprendere a fondo questa complessità è la prima sfida che siamo chiamati a cogliere.
Purtroppo, guardando agli ultimi fatti di attualità e di cronaca politica, sia nel nostro piccolo sia su scala internazionale, mi sembra che già su questo punto facciamo acqua. Mi sembra che in generale il nostro sforzo di comprensione, di conoscenza e di apertura sia minimo mentre è diffusa la tendenza a semplificare ogni cosa fino a renderla sterile, innocua, compiacente, propedeutica all’idea imperante di una vita perfetta, semplice, felice.
Del concetto di Bauman «La felicità è risolvere problemi, non anestetizzarsi», abbiamo capito ben poco, continuiamo, infatti, ad essere bravi nell’anestetizzarci, nel chiudere gli occhi dinanzi a ciò che è scomodo, fastidioso, difficile. Alziamo il tappeto e con un colpo di scopa cacciamo tutto sotto e se non ci sta allora riduciamo, scomponiamo e snaturiamo finché il senso non ha più senso.
Viva la complessità, impariamo dal «Guardian».