Vita difficile per il «politically correct»

/ 07.08.2017
di Luciana Caglio

Lei ha preparato la cena, lui rientra dal lavoro: sono i protagonisti di uno spot, che reclamizza pentole, diffuso recentemente dagli schermi televisivi inglesi. Poteva sembrare destinato, sia per il contenuto che per la grafica, a rimanere lettera morta, vittima insomma della sua stessa banalità. Invece ha fatto notizia innescando una polemica a non finire, che, partendo da un episodio irrilevante, ha coinvolto un fenomeno politico-culturale di portata mondiale, ormai storico: il «politically correct». Che, adesso, appare visibilmente in affanno, costretto a rincorrere cause pretestuose rischiando il ridicolo. Come nel caso dello spot delle pentole. Proprio in quell’immagine di coppia, simile a una vecchia cartolina, l’«Advertising Standards Authority» (ASA), l’ente preposto alla sorveglianza sulla propaganda commerciale, fedele ai principi della correttezza politica, ha ravvisato un messaggio pericoloso: basato, in verità, non tanto su constatazioni quanto su percezioni, per usare un termine oggi di moda, che ben riflette la vaghezza contemporanea. Fatto sta che, a quella coppia di coniugi è stato attribuito un valore simbolico spropositato: lei casalinga e lui impegnato professionalmente, confermavano la continuità di uno stereotipo oggi inaccettabile, che sottintende un rapporto di dipendenza, culturale ed economica. Insomma, la vignetta denunciava un’offesa al principio della parità di genere, anche se, in questo caso, era più presunta che concreta. In altre parole, la denuncia di questo reato, d’ordine sociale e morale, faceva capo a una sorta di credo ideologico.

L’ASA, infatti, dichiara che, con lo spot pubblicitario «non si vendono prodotti ma identità». E con queste parole sibilline ha cercato di giustificare il veto nei confronti di uno spot, in pratica innocente, imposto da un’interpretazione «politicamente corretta», ma falsa: che non teneva conto di dati statistici insospettabili, che registrano una tendenza di segno opposto. Altro che massaie, esiliate in cucina. Le donne, nei nostri paesi fortunatamente evoluti, sono sempre più presenti sul fronte delle professioni, della cultura, della socialità. Non per niente, la vicenda di questo spot delle padelle ha suscitato reazioni ironiche, che, in fin dei conti, sono le più temibili. Dimostrano la perdita di credibilità che spetta, ormai, al fenomeno di un «politically correct» allo sbando.

Sembra, insomma, di assistere alla fine di un’epoca, che aveva preso avvio, già negli anni 30, quando negli ambienti universitari americani, fu coniata appunto la definizione « politically correct», con il proposito di correggere le parole che implicavano disprezzo e umiliazione per certe categorie di cittadini. Fu allora che «nigger», «black», «negros», venne sostituito, almeno sul piano ufficiale, con «afro-americans», e, a livello mondiale, con «nero» o «di colore». La svolta, che segnò una nuova stagione della «correttezza politica», risale agli anni 70/80, e allargò i propri confini, coinvolgendo altre categorie di persone, considerate vittime di discriminazioni: le donne, gli invalidi, i ciechi, gli omosessuali. Strada facendo, però, il movimento doveva prestarsi a derive, il meno che si dica sconcertanti: del tipo, «verticalmente svantaggiato», o «diversamente dotato», o « non vedente» che, ai nostri amici ciechi, non piace. Per non parlare, infine, di assurdità che, comunque, impegnano i linguisti in ricerche grottesche. Ecco che, in USA, sono sotto processo le parole contenenti il suffisso «man», come «mankind», «chairman», addirittura «human»: considerate offensive nei confronti delle donne. Un’ossessione riformista tipicamente americana? Anche l’Europa ne è contagiata: anche da noi, si dibatte su sindaca, avvocata, piuttosto che avvocatessa, presidentessa, sempre più in disuso. Ma, negli ambienti del femminismo puro, si fanno avanti richieste ben più impegnative: come femminilizzare espressioni come «caccia all’uomo, a passo d’uomo, a misura d’uomo». L’interrogativo rimane aperto, a disposizione dei perditempo.