Vita da soubrette

/ 01.10.2018
di Bruno Gambarotta

«Vai a una festa?», ha domandato mio nipote Enea, notando che mi ero tirato a lucido. «No, vado a intervistare una soubrette». «Cos’è?» Era la dea che incarnava i nostri sogni proibiti quando eravamo adolescenti, vorrei dirgli, ma lui, 25enne, non capirebbe. Per spiegarmi apro il DIR, il Dizionario Italiano Ragionato, alla voce «soubrette»: «Nella commedia francese, la classica servetta, in genere vivace e petulante. Nel teatro italiano, in particolare nella rivista musicale, giovane prima attrice, ballerina e cantante». Per noi studenti era l’avanspettacolo, interi pomeriggi trascorsi in locali dove ancora si poteva fumare, affollati di soldati in libera uscita, nei quali la proiezione del film era alternata al varietà, con il capo comico, il corpo di ballo, l’equilibrista o il giocoliere o l’illusionista e infine Lei, una bellezza statuaria, con abiti succinti ricchi di piume. Cantava, ballava, recitava brevi scenette facendo da spalla al comico. Lo spettacolo si concludeva con la «passerella», che tutti gli artisti eseguivano su una pedana protesa verso la platea, con un pubblico osannante alle ballerine che lanciavano le gambe verso l’alto. Federico Fellini ha rievocato magistralmente quel genere di spettacolo in più di un film. Una famosa soubrette era stata Milly, al secolo Caterina Mignone, che si esibiva a Torino nel 1927.

Nei primi giorni del mese di marzo Milly lasciò Torino e Cesare Pavese le indirizzò a Roma una lettera, rimasta senza risposta. Le parole di Pavese rappresentano bene i nostri pensieri adolescenziali: «Io non sono che un comunissimo studente di 19 anni e lei è lontana, tanto lontana. Come avrei potuto avvicinarla, qua in Torino? Sempre in compagnia la trovavo e sarebbe stato ridicolo. Del resto, anche se avessi potuto incontrarla sola, sarei stato confuso nel numero dei soliti “cacciatori” e tutto sarebbe finito». Il giovane Cesare non poteva saperlo, ma in quella stagione, per un mese intero nel suo camerino ospitò durante gli spettacoli il principe ereditario Umberto di Savoia che aveva l’abitudine di regalare alle signore che frequentava un portasigarette d’oro con le sue iniziali. Per mettere a tacere le voci che iniziavano a circolare, casa Savoia procurò a Milly una scrittura che la portò negli Stati Uniti. Sarebbe ritornata in Italia solo nel dopoguerra, iniziando una nuova carriera, grazie a Giorgio Strehler che le affidò il ruolo di «Jenny delle spelonche» in una memorabile edizione dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht al Piccolo di Milano e ad Antonello Falqui, che la volle ospite fissa come cantante nel varietà Studio Uno del sabato sera. 

Cesare Pavese inviò a Milly una seconda lettera, nella notte del Natale 1927 (un fatto che certifica che la solitudine non l’ha mai abbandonato). Scrive, tra l’altro: «Ho una tale tempesta nel cuore che se Lei sapesse, avrebbe paura». Inutile precisare che anche questa seconda missiva non ebbe risposta. Intervistata nel dopoguerra a questo proposito, Milly spiegò che a quel tempo riceveva una grande quantità di lettere e che, se avesse immaginato cosa sarebbe diventato quel ragazzo che le dichiarava il suo amore, avrebbe di sicuro risposto. Da giovane sono stato un appassionato lettore di Pavese, al punto di farmi regalare un paio di occhiali da vista senza averne bisogno, per cercare di assomigliargli fisicamente, ma non ho mai pensato di scrivere a una soubrette, lo giuro. Invece ora vado a conoscerne una, grazie alla presentazione di un amico. Milly era nata ad Alessandria nel 1905, aveva tre anni più di Pavese, questa che sta per ricevermi è una mia coetanea, abbiamo entrambi 81 anni. Sul citofono è scritto Wilma Zavattaro ma in arte era Wilma Zavart. Le pareti del suo appartamento sono tappezzate da manifesti e da fotografie che la ritraggono in tutto il suo splendore, bionda, statuaria, burrosa, sorridente, coperta di lustrini, in una parola regale. Mentirei se dicessi che me la ricordo e lei per fortuna non me lo domanda. La memoria conserva solo il nome dei capi comici.

Non ha rimpianti Wilma mentre rievoca a mio favore i retroscena della vita della soubrette. Una carriera iniziata quasi per caso, lei 14 enne allieva della scuola di ballo del teatro Regio di Torino chiamata da una sorella più grande a sostituire una ballerina. Proseguita con Macario che pretende di cambiarle il nome in Wilma Dilanda. Proseguita a Milano e poi a Napoli, con impresari che talvolta tagliavano la corda dimenticandosi di pagare anche i conti dell’albergo. In compenso una fatica disumana, due recite al giorno, tre la domenica e la mattina impegnata a provare perché il copione cambiava ogni settimana. È un genere di spettacolo al tramonto e per le soubrette che non riescono ad approdare negli studi televisivi l’unica alternativa sono gli spogliarelli. Non fa per lei. Nella notte del capodanno del ’67, Wilma, mentre si trova in viaggio sull’autostrada fra Roma e Napoli decide di dare un taglio netto. Senza rimpianti. Inizia un’altra vita.