Vita agra due punto zero

/ 03.04.2017
di Paolo Di Stefano

Sessant’anni fa usciva da Feltrinelli il primo «romanzo» di Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale (5+), un libro ironico, a tratti satirico, tra narrazione autobiografica, saggio sociale e pamphlet: il toscano Bianciardi vi narrava la voglia di cambiare dei giovani nel dopoguerra e la cappa plumbea che veniva loro opposta dai benpensanti di destra e di sinistra, con tutto il fermento velleitario di cineclub, circoli culturali, dibattiti pubblici, riviste e rivistine. E insieme prefigurava i mutamenti in vista nell’industria culturale e nella società politico-letteraria con i suoi assurdi stereotipi di linguaggio e di comportamento.

Nel 1954 il provinciale Bianciardi era partito dalla sua Grosseto, che – gli aveva fatto notare un ufficiale americano nel ’45 – somigliava a Kansas City, per trasferirsi a Milano, nel cuore della modernità, senza mai accettarla: questa repulsione un po’ romantica e un po’ anarcoide la racconterà ancora meglio ne La vita agra (5½), il suo capolavoro, un romanzo in cui l’ironia prende le forme dell’invettiva rabbiosa. Nel 1957, Luciano sarebbe stato licenziato, per scarso rendimento (si addormentava spesso alla scrivania), dalla casa editrice Feltrinelli, dove aveva lavorato come redattore al fianco di Mario Spagnol, Valerio Riva e dei due Nanni, Balestrini e Filippini. Refrattario al posto fisso, ostile a ogni tipo di integrazione, Bianciardi non amava il capo, Giangiacomo, «detto il giaguaro», che descriveva così: «ventotto anni, occhiali, baffi, alto e robusto, ignorante come un tacco di frate, e ricco da far schifo. Ha le mani nel legname, nelle costruzioni edili, nei frigoriferi, nella Coca Cola. Ha atteggiamenti esterni molto cordiali e sbracati: quando ci incontriamo parliamo sempre a base di manate sulle spalle e pacche sullo stomaco. Mi ha in simpatia».

Simpatia non ricambiata, evidentemente, che però garantisce lo stesso stipendio di prima al quasi quarantenne Luciano, che non è più tenuto a rispettare gli orari d’ufficio, ma ha compiti di traduttore a domicilio. Abita in una camera in affitto di via Solferino 8 senza bagno ma con un giro di «donnine allegre», come si diceva allora, e soprattutto a due passi da Brera, la zona degli artisti bohémien, pittori, scrittori, fotografi, attori, vagabondi, squattrinati e stonati dall’alcol bevuto prima al banco della tabaccheria gestita dall’emiliana Titta, poi ai tavolini del mitico caffè Giamaica. Bianciardi si trascina, odia Milano, ha sempre in bocca parole sferzanti e risate distruttive, non raccoglie grande solidarietà: come avrebbe detto una sua collega, «aveva un po’ rotto l’anima a tutti». Scrive nel 1961 a un amico: «A Milano non ho amici, sono stato solo fin dal primo momento. Quando ho avuto bisogno, nessuno mi ha dato una mano, e tutto questo credo che mi abbia cambiato in peggio».

 

Non leggete i libri, fateveli raccontare è il titolo di un divertente intervento-saggio (6–) in cui Bianciardi, cinquant’anni fa, si faceva beffe degli intellettuali, dando consigli spassionati a coloro i quali, pur non avendo talento, volessero ottenere successo nel mondo della cultura. Non iscriversi all’università, non laurearsi perché la laurea è un limite; per poter meglio evitare di studiare, trasferirsi in una grande città, dove si sformano «formaggini culturali» e dove indossando la cravatta si può sempre essere chiamati «dottore». Poiché escono un sacco di libri al giorno, continua Bianciardi, e non avendo il tempo di leggerne neanche i risvolti di copertina, anche a chi decide di rimanere in provincia conviene frequentare i pochi poveri diavoli che passano le giornate chini sulle pagine: il candidato intellettuale di successo «saprà da loro tutto quel che occorre sapere». Bianciardi si sofferma anche sulla mimica e sulla gestualità necessarie a raggiungere l’obiettivo della fama intellettuale: la mano aperta con dita allargate sul petto dà forza a un certo tipo di discorso; i polpastrelli di pollice e indice che sfregano la pelle degli occhi esibiscono la stanchezza dovuta allo studio eccessivo; le dita poggiate sulla sella del naso fanno molto filologo; molleggiare il peso del corpo sulle ginocchia comunica un giusto senso inquietudine…

Il vademecum di Bianciardi per l’intellettuale di successo andrebbe, ovviamente, aggiornato ai nostri tempi da talk show. Per esempio, consigliando che una mano passi regolarmente con le dita aperte a ravviare i capelli grigi, né troppo lunghi né troppo corti; che la parlata sia un po’ sciatta, con esibite inflessioni dialettali, perché anche l’intellettuale ha un’anima popolare; che si citino i social come «pancia del paese»; che il tono della voce sia sempre piuttosto sostenuto e che ogni tanto sfugga una parolaccia in modo che circoli subito in rete un video destinato a diventare virale e il giorno dopo se ne parli sui giornali. Vita agra di un intellettuale due punto zero.