Anche sulla Bahnhofstrasse, è tutto dire, capita d’imbattersi in qualche barbone. Accovacciato nella rientranza di un portone, avvolto in una coperta, il cappello per terra rovesciato a uso salvadanaio, e magari accompagnato da un cane malandato, non è più una presenza estranea, una sorta di anomalia nella strada cassaforte mondiale. Forse può stupire, e indurre all’ironia, i turisti, ma per gli zurighesi il senzatetto è ormai assimilato nella quotidianità, circondato da tolleranza e indifferenza. Del resto, è ciò che cercano questi marginali, e che, nel passato, si potevano trovare soltanto nelle metropoli. Tanto da diventarne, a loro modo, un emblema. Il clochard parigino, il barbone milanese, il Landstreicher berlinese, l’homeless newyorkese e londinese: con appellativi diversi, questi personaggi dimostravano che, nella metropoli, c’è posto per tutti. Questione di spazio materiale e soprattutto, di disponibilità mentale. Ma non è più una prerogativa soltanto delle grandi capitali, dove tra fretta e confusione non si bada ai balordi. Adesso, anche in città di medie e piccole dimensioni come le nostre, ormai popolate da un mosaico di nazionalità ed etnie, è riuscito a insediarsi un altro diverso, il senzatetto. La definizione, in pratica, si riferisce a un’ampia tipologia di emarginati: anarcoidi, vagabondi, ribelli, diseredati, insofferenti, e via dicendo. Sta di fatto che a questi nuovi concittadini ci si sta, magari nostro malgrado, abituando.
In proposito, il caso di Zurigo, è rivelatore dal profilo dei sentimenti popolari. In fin dei conti, nella severa e pulitissima capitale bancaria, gli homeless non sembrano disturbare. Costituiscono, addirittura, una categoria umana che lascia segni particolari nel quadro cittadino, insomma indizi d’appartenenza. Ci sono luoghi, come pensiline dei tram, sottopassaggi, angoli di parchi, bar, mense, dormitori, bagni pubblici di loro specifica pertinenza. Di cui si occupano operatori sociali, impegnati in ardui tentativi di recupero. È la faccia di una Zurigo, insolita e non rinnegata, che Martin Suter descrive nel suo ultimo libro Elefant (tradotto in italiano con il titolo Creature luminose, pubblicato da Sellerio). Si tratta di un romanzo in cui, evidentemente, la realtà subisce una rielaborazione. E, così, agli homeless, l’autore dedica un’attenzione affettuosa e divertita, ne racconta le abitudini, ne riferisce il linguaggio ruvido e ironico. Testimonia una simpatia, in fondo condivisa, nei confronti di persone che, spesso, hanno alle spalle una scelta di vita volontaria, ispirata a un’intenzionale libertà, da cui ricavano visibilità, al limite del folclore.
Ed è qui che passa il confine fra povertà voluta ed esibita e povertà subita e nascosta. Guarda caso, mentre leggevo lo spassoso racconto di Suter, mi sono imbattuta nella recensione del saggio Poor People, frutto della ricerca, condotta dal giornalista americano William T. Vollmann nelle pieghe dove, in ogni parte del mondo contemporaneo, si annida la povertà. Ma quella invisibile, di cui sono vittime del tutto involontarie persone che, pur partendo da condizioni in apparenza normali, non ce l’hanno fatta. E a una vita, vera e propria, hanno finito per sostituire una sopravvivenza umiliante. Sono gli operai costretti a lavorare in ambienti inquinati, dove si ammaleranno, sono le donne sottopagate e avvilite da maternità indesiderate, sono i bambini e i giovani che abbandonano la scuola troppo presto. Vollmann li ha incontrati, dappertutto nel mondo. «La povertà, osserva, è un’esperienza da osservare dal vivo. Le cifre delle statistiche non bastano». Per poi lanciare una sfida semplicistica: «Alla persona povera spetta una parte di ciò che io ho in più». E concludere: «L’importante è che il fenomeno della povertà ci tocchi, tutti quanti».
Ed è, infatti, ciò che avviene, persino nei paesi più privilegiati, cui apparteniamo, nella Confederazione elvetica, ai primi posti nella statistica dei redditi. Però, proprio qui, la povertà rimane un tema all’ordine del giorno. Temuta dai giovani, che vedono in pericolo pensioni e AVS. E un fantasma inventato dai pessimisti che praticano il culto del peggio.