Virus prodotti da virus

/ 18.05.2020
di Ovidio Biffi

Un po’ in ritardo, ma ce ne siamo accorti: dalla bisaccia della pandemia, oltre ai veleni della Covid-19, fuoriescono anche effetti nocivi prodotti dalle quotidiane e globali ondate di informazioni collegate al Coronavirus. Senza proteste abbiamo così sorbito, e ancora stiamo sorbendo, anche gli effetti nocivi di un secondo focolaio endemico, parallelo al nuovo virus cinese: una quantità abnorme di informazioni sempre sullo stesso argomento, provenienti da fonti sparse in tutti i continenti e proprio per questo sempre più difficili da verificare. Praticamente un vero e proprio monopolio dell’informazione che ha fatto sparire da tutti i media altre offerte, inchieste, accadimenti e temi abituali (dal blocco di sport e intrattenimenti sino alla paralisi culturale). I pericoli di un simile bombardamento infodemico, in pratica un virus prodotto da un altro virus, qualcuno li aveva già segnalati (cito solo Susan Sontag su «l’Internazionale») dopo un allarme lanciato nientemeno che dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), già a inizio gennaio, con un tempismo che suscita sospetti alla luce delle successive accuse alla stessa Oms di mantenere legami troppo stretti con i dirigenti di Pechino. In quell’avviso l’istituto per la sanità onusiano si sbilanciava sino a invocare «una cura contro l’infodemìa che il Coronavirus di Wuhan sembra essersi portato con sé» adducendo il fatto che nell’era dei social media la comunità globale favorisce deformazioni dei reali sviluppi e condiziona giudizi e scelte. Alle nostre latitudini, a entrare in materia, ci ha pensato Giancarlo Dillena che sul «Corriere del Ticino» ha elencato potenziali danni dell’infodemìa avvertiti anche in Ticino: la martellante insistenza nell’indicare la generazione anziana come la più vulnerabile con «una strisciante quanto diffusa forma di diffidenza nei loro confronti»; le cascate di numeri e di dati che, più che fornire prove dell’efficienza, con «il moltiplicarsi e l’intrecciarsi di molte, troppe voci» generano confusione consentendo sempre letture diverse, se non manipolazioni; infine la poco sana «commistione fra dimensione tecnica (medici e ricercatori) e dimensione politica (tipo, tempi e modi delle misure adottate dai governanti)» che alla fine complica tutto.

Lasciamo l’infodemìa per tornare nel limbo da «governoguidati» in cui, in definitiva, ci siamo limitati a fermarci, ad attendere ordini, a sentire ogni giorno gli stessi dati, per arrivare dopo cento giorni e cento miliardi (ormai si va a spanne...) a capire che il virus sconosciuto circola ancora e trasmette un altro virus. Pensando alla lunga pausa mi sono chinato su una domanda: l’interruzione imposta dal «lockdown» alle nostre normali attività e alle abitudini legate alla vita quotidiana ha qualche somiglianza con altri momenti o altre situazioni da cui sia possibile dedurre spiegazioni o insegnamenti su quanto sta accadendo? Tra le risposte trovate, l’analogia più chiara è quella evocata dal direttore de «Il Foglio» Claudio Cerasa: «Il Coronavirus ha avuto (…) lo stesso impatto che ha di solito una safety car quando entra in un circuito di Formula 1: rallentando il paese permette a tutti di osservare quali sono i vizi e le virtù delle macchine in corsa (…) le nostre istituzioni, il nostro stato, le nostre imprese». Facile, partendo da questa similitudine, immaginare che ora, ricompattato il gruppo di vizi e virtù, la safety car con un progressivo aumento della velocità permetterà alle auto (quella svizzera e quella di cento altri paesi) di ricominciare la corsa con gomme, livelli di carburante e strategie di gara modificati e diversi. Inutile aggiungere che molti, per non dire tutti, oggi si augurano che, sparita la safety car, le strategie politiche facciano sorgere una società che, oltre a cancellare i danni del virus, si impegni a riparare anche errori e disfunzioni degli ultimi decenni.

Le aspettative del dopo Coronavirus sono il tema di un’altra singolare somiglianza scoperta in una lettera aperta del regista e scrittore Pupi Avati ai dirigenti televisivi italiani. Ad Avati il «lockdown» ricorda «quando nel cinematografo degli anni Cinquanta si rompeva la pellicola e accadeva di venire scaraventato fuori da quella storia», perciò invita i dirigenti ad approfittare della tregua obbligata per una ripresa anche culturale, in particolare con offerte televisive che soppiantino il trash oggi propinato dalla mattina sino notte fonda dai millanta canali televisivi italiani (che sono poi anche «nostri», stando a indici di ascolto e preferenze del pubblico ticinese). Insomma: risorgere al grido di «il virus si porti via anche la TV trash». Merita citazione anche l’incipit della lettera di Avati: «È il primo periodo della mia vita in cui anziché abbracciare vorrei essere abbracciato. Mi manca persino quella specie di bacio notturno con il quale auguro la buonanotte a mia moglie e che lei giustamente mi ha vietato». Di sicuro, i lettori della mia età non faticheranno a sottoscrivere e a conservarlo nel cuore.