Per i torinesi è «il Barachin». Dal grande dizionario piemontese di Vittorio di Sant’Albino del 1859: «Barachin. Ramino. Vaso di stagno o d’altro metallo, con manico metallico, curvato in semicerchio, girevole in due opposti occhiellini a uso di portar minestra o checchessia d’altro». Grazie a questo contenitore di cibo i torinesi iniziano a conoscere la cucina delle altre regioni. Dobbiamo immaginare gli operai che, durante la pausa mensa, aprono i loro barachin, iniziano a mangiare ma non possono fare a meno di gettare un’occhiata curiosa a quello che il collega sta mangiando. All’invito «vuoi favorire?» seguono i primi esitanti scambi. Per tutti gli altri abitanti della città la scoperta delle tradizioni regionali coincide con «Italia ’61», la grande esposizione celebrativa del primo centenario dell’Unità d’Italia, con la Mostra delle Regioni, alcune, come la Campania, con le loro proposte gastronomiche.
Era strutturata in 19 padiglioni, disposti a forma di stivale. Da allora sono trascorsi 57 anni e a Torino molte cucine regionali sono egregiamente rappresentate tanto da meritare una guida di prossima pubblicazione. La richiesta di scrivere la prefazione mi ha costretto a pormi qualche domanda. La prima: a chi si rivolge il ristorante regionale? Facciamo un esempio. Per un ristorante siciliano a Torino ci sono due tipologie di clienti: il siciliano nella capitale del Piemonte per affari o per turismo che prova nostalgia per la cucina della sua terra e il piemontese che è stato in Sicilia e, memore di quella tradizione, desidera ritrovarla sotto casa. Il primo cliente è difficile da accontentare, perché quello che gli verrà servito, per quanto ineccepibile, non sarà mai buono «come lo cucinava la mia povera mamma». Lo chef, rivolgendosi al secondo tipo di cliente, sarà tentato di attutire la forza originaria della sua offerta nello sforzo di renderla più accettabile ai palati «stranieri», assecondando un loro ideale di «sicilianità». Finirà per proporre una versione «rivisitata» della tradizione. Non c’è niente di male, basta saperlo.
Seconda domanda: esistono, fuori dai confini del Piemonte ristoranti «piemontesi» che si presentino con un profilo di esclusività e di rigore? Il fatto di non averne mai trovato uno, mi fa venire la voglia di provare a immaginare il mio «ristorante piemontese» ideale. Il cliente è un signore che, tornato a casa dopo un soggiorno in Piemonte, vorrebbe ritrovare i sapori perduti. Perciò dobbiamo offrirgli un concentrato di piemontesità, sfruttando gli stereotipi più biechi senza paura di esagerare. L’ insegna riprende il titolo di un romanzo famoso, La donna della domenica. L’interno è ovattato, signorile, come immagina un club inglese chi non c’è mai entrato. Su una parete un albero genealogico da cui risulta che la nostra famiglia esercita la nobile ristorazione dalla fine del ’700. Su un’altra parete, la targa in ferro smaltato che certifica il nostro status di «Fornitori della Real Casa». Avremo le perfette riproduzioni di due quadri di qualità eccelsa, di Felice Casorati. Il mattino, del 1920: attorno a un tavolo siedono due donne e tre bambine, ciascuna di loro ha davanti una scodella vuota e dal loro sguardo si comprende che non arriverà nessuno a riempirle. In Natura morta del 1943 si vedono in tutto quattro mele. Il nostro cliente, osservando i quadri, sarà portato a fare un confronto e a ritenersi fortunato e sarà ben disposto quando riceverà il conto. Manca ancora un dettaglio.
A Roma mi servivo di una libreria dove alla cassa sedeva l’anziana padrona che mi salutava chiamandomi ammiraglio. Ricordando l’intenso piacere che si rinnovava ogni volta collocherei vicino all’ingresso un bel pensionato con l’unico compito di salutare i clienti con attributi altisonanti. La difficoltà maggiore per una cucina piemontese autentica è insita nei piatti tradizionali come il fritto misto, la finanziera, il gran bollito misto, la bagna caoda, i risotti novaresi o vercellesi; sono impegnativi, di lunga preparazione, con il rischio elevato che residuino degli avanzi. Ecco un metodo per smaltirti: il maître, quando consegna al cliente la lista cibaria, deve chinarsi verso le sue orecchie e sussurrare: «ci sono altre proposte, fuori menù perché ne sono rimaste poche porzioni, le teniamo per i clienti di riguardo». Ed elenca i piatti segnalati dallo chef da sbolognare prima che sia troppo tardi. Nove clienti su dieci ordinano i piatti fuori menù. L’altro sistema per riciclare gli avanzi consiste nel proporli fra gli antipasti, è noto che in Piemonte sono offerti in gran quantità. Bisogna però mascherarli con incroci inediti; prima ancora che il cliente abbia fatto l’ordinazione, partirà dalla cucina un cameriere con un piatto da servire con un messaggio: «Il nostro chef sta sperimentando un nuovo piatto e avrebbe piacere di sentire il parere di un esperto». Il cliente si gonfia come un tacchino, assaggia, emette il suo verdetto e da quel momento è nelle nostre mani. Ascoltata l’entusiastica approvazione del signore a capotavola, tutti gli altri commensali lo vorranno assaggiare. E il gioco è fatto.