«Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie…», proclamavano i futuristi nel loro «Manifesto» del 1909. Era una provocazione, naturalmente, un guanto di sfida lanciato ai conservatori e ai tradizionalisti, ma qualcuno allora prese quelle parole alla lettera, pensando che il passato si potesse cancellare con un colpo di spugna. Grandiosa e disperata illusione, giacché la storia prima o poi presenta il conto: è come un torrente carsico, che dopo un periodo di relativa quiete riemerge con impeto alla superficie, portando con sé i detriti rimossi, i traumi e le ferite individuali e collettive. Quanto sta succedendo in questi mesi sulle due sponde dell’Atlantico, ossia la furia iconoclasta contro figure un tempo ritenute illustri e benemerite, è da un lato comprensibile (si pensi all’abbattimento delle statue di Lenin nell’ex Unione Sovietica), ma dall’altro rischia di rendere un cattivo servizio alla formazione di un’articolata coscienza storica. Distruggere non è mai la via migliore, anche se la rabbia proviene da minoranze tuttora oppresse, come i neri e i nativi rinchiusi nelle riserve.
Ciò detto, è bene che finalmente, sull’onda dell’indignazione popolare, autorità e accademie abbiano deciso di riaprire le indagini su personaggi non propriamente immacolati. Zurigo lo sta facendo nei confronti di Alfred Escher, il barone delle ferrovie, uno degli artefici della galleria del San Gottardo, promotore di istituti bancari e assicurativi, co-fondatore del Politecnico federale nonché cittadino onorario di Lugano. Recentemente si è scoperto che gli zii Fritz e Ferdinand impiegarono nella loro piantagione di caffè sull’isola di Cuba un’ottantina di schiavi. I ricercatori non sono ancora in grado di stabilire se Escher medesimo avesse tratto profitto da quest’attività del parentado per le sue operazioni finanziarie, ma è certo che ne fosse a conoscenza. Di qui la proposta, avanzata da alcuni politici locali, di trasferire in un museo il monumento eretto nel 1889 di fronte alla stazione centrale.
Ad ogni modo le ricerche proseguono ed è giusto che sia così. Escher fu senz’altro una personalità fuori del comune, per la straordinaria capacità di lavoro e per le energie che profuse nelle sue numerose iniziative; non è sbagliato considerarlo uno dei padri della Svizzera moderna uscita dalla guerra civile del Sonderbund. Ma anche lui, come tanti imprenditori rampanti dell’epoca, chiuse gli occhi di fronte alle ingiustizie generate dagli «spiriti animali» del liberismo allo stato brado, al destino dei miserabili, agli stenti delle classi subalterne.
Anche l’impresario che si aggiudicò lo scavo del traforo ferroviario del San Gottardo, Louis Favre, meriterebbe un riesame critico. Finora ha prevalso l’agiografia. Ginevra e Chêne-Bourg (il comune in cui nacque nel 1826) gli hanno dedicato monumenti e piazze. Un suo busto – opera dello scultore Pietro Andreoletti – è presente nel cimitero di Göschenen. Ma come non ricordare che fu la sua impresa ad arruolare nel 1875 le guardie che repressero nel sangue i minatori scesi in sciopero per protestare contro le proibitive condizioni di lavoro e per rivendicare aumenti salariali? I colpi di fucile nel villaggio urano fecero quattro vittime e numerosi feriti.
Illuminare questi angoli bui non è lesa maestà. Voci di denuncia si levarono già in quel giro d’anni. Una di queste la espresse Vincenzo Vela, lo scultore del celeberrimo bassorilievo dedicato alle «vittime del lavoro», il quale così giustificò la sua iniziativa in una lettera indirizzata all’amico Carlo Baravalle: «informato a principii liberali sempre ammirai l’operaio, le classi oppresse, stimai sempre i martiri del lavoro, quelli che arrischiano la loro vita senza fanatismo né orgasmo che la guerra produce ma calmi soldati del lavoro…». La Compagnia del Gottardo respinse l’offerta di procedere alla fusione in bronzo dell’opera, cosicché il bassorilievo fece ritorno nello studio dell’artista a Ligornetto. Solo nel 1932 fu possibile collocarlo sul piazzale antistante la stazione di Airolo.
Purtroppo l’ecatombe di lavoratori non è mai cessata da allora. Anche i cantieri ticinesi sono spesso teatro di disgrazie, come testimoniano le cronache: frontalieri arruolati dalle imprese edili per svolgere mansioni ingrate e pericolose e poi nemmeno chiamati per nome quando perdono la vita per sventura o negligenza altrui. Se Vela resuscitasse in questo anno in cui si celebra il suo bicentenario della nascita (1820-2020), siamo certi che renderebbe omaggio alle tante nuove formiche operose che ciclicamente cadono sul fronte del lavoro.