A passo distratto, dopo esser sceso dal tram numero quattro, vado verso quella che è stata definita dalla «Neue Zürcher Zeitung» come «la casa più pazza di Zurigo». Patumbah: il nome di questa villa del 1885 mi fa venire in mente un capitombolo onomatopeico tipo patabum, con il tocco finale esotico-perplesso dell’interiezione bah. In realtà, in malese antico, significa «un luogo dove ci si sente bene». Patumbah si chiamava anche una delle piantagioni di tabacco sull’isola di Sumatra che hanno arricchito a dismisura, con l’ombra dello schiavismo, il suo committente: Carl Fürchtegott Grob (1830-1893). Omino dall’aspetto insignificante con una faccia simile a un furetto. Al numero centoventotto dalla Zollikerstasse, m’imbatto in Villa Patumbah (418 m) che non passa di certo inosservata. Stucchi a festoni con cornucopie, il rosa macchiettato del granito di Baveno, pietra d’Istria color ocra pallido, falso marmo verde o viola, marmo di Carrara, Mercurio e Flora in due nicchie a conchiglia, foglie di tabacco affrescate, una tigre e un leone scolpiti, il nome a caratteri d’oro su in cima: Patumbah.
Opera storicista del duo di architetti Chiodera & Tschudy – autori tra l’altro della sinagoga di Zurigo e dello Schauspielhaus – formato da Alfred Chiodera (1850-1916) e Teophil Tschudy (1830-1893), è un bel mix di stile neorinascimentale, postbarocco, gotico orientaleggiante. Il cielo coperto attenua la follia architettonica di questa villa ampollosa di tre piani dove entro un primo pomeriggio verso la fine di aprile. Sede oggi dell’Heimatschutz svizzera, per decenni è stata casa per anziani in mano alle diaconesse di Neumünster che avevano ridotto il giardino all’inglese del famoso architetto paesaggista Evariste Mertens (1846-1907), a un orto in cui si coltivavano esclusivamente zucchine enormi, da concorso. L’occhio, ormai agguerrito a trovare figure fantastiche in giro, non fatica a catturare un cane alato dipinto sul muro delle scale che purtroppo non si possono salire. Visitabile solo al piano terra, a meno che non prenotiate l’unica visita guidata che si svolge l’ultima domenica del mese.
La prima grande sorpresa allevia un po’ la delusione di non poter vedere i piani superiori che hanno nella cupola-pagoda vetrata in cima, il suo pezzo forte. È l’occhio del drago: un oblò nel soffitto che spinge lo sguardo magicamente su fino al soffitto luminoso del terzo piano dove guardano giù, vitree e coloratissime, diverse figure grottesche. E alcune cineserie, come in un caleidoscopio. Sempre a naso all’insù, incontro una natura morta con melone, dipinta sul legno del soffitto a cassettoni che mostra anche una moltitudine di draghi. Ma è una magnifica magnolia rosa che si vede dalle finestre, nel parco, a ridosso della villa, a rapire lo sguardo che però si meraviglia sul serio solo quando incontra la fontana-ostrica gigante. Si tratta di una spettacolare Tridacna gigas proveniente dall’oceano indo-pacifico, portata a casa dal Fürchtegott Grob come mastodontico souvenir, in mezzo alla quale c’è una rocaille da cui sale il getto d’acqua. Ancora stucchi, sul soffitto affrescato con cieli azzurri, nuvole, putti. Intarsi a non finire nell’abbondante legno alle pareti, pavimento, porte: noce, ciliegio, olmo, quercia. La carta da parati floreale del salone, tra l’oro e il verde con sprazzi di blu e rosso, un po’ stile William Morris, rappresenta tutti gli stadi del melograno.
Esco fuori nel parco dirigendomi verso il pavillon. Voltandomi vedo, chiara e netta, la simbiosi tra la grande magnolia giapponese in piena fioritura e la Patumbah. La tinta rosea dei fiori si accorda con i colori minerali Keim dei materiali imitati sulla facciata, ritrovata in tutta la sua eccentricità dopo l’attentissimo restauro orchestrato, tra il 2010 e il 2013, dallo studio di architettura Pfister Schiess Tropeano. Il parco, all’epoca capolavoro di Evariste Mertens, è stato amputato di molto. Venduto dalle diaconesse che lo avevano ricevuto in regalo, assieme alla villa, dalla vedova Anna Dorothea Grob-Zundel e le figlie Margrit e Anna Carolina (morte entrambe zitelle prima dei cinquantanni), forse per espiare le colpe colonial-negriere del marito e rispettivo padre. La passeggiata perciò, non ricorda più certi passaggi letti tra le pagine di L’arte di andare a passeggio (1802) di Karl Gottlob Schelle, in compenso però noto con piacere che si trovano in giro, nomadi, delle graziose sediuole da giardino. Il nomadismo di queste composizioni casuali di sedie mi ricorda, per un attimo, certi parchi parigini in primavera. Ne scelgo una, accanto al pavillon in ghisa con zoccolo in mattoni rossi e giallo crema. E mi siedo, così, per un picnic essenziale fuori orario (a meno che gli orari non siano madrileni): asparagi e uova sode.
Lancio lo sguardo là verso la fontana-tridacna gigante oceanica che magari può risultare anche una stupidata kitsch ma a me piace da matti, quasi più di Villa Patabum. Patapunfete e patapim e patabam, mi vengono in mente ora come altre parole onomatopeiche simili. Plop è il suono di un fiore di magnolia appena caduto. Il rumore adesso della ghiaietta, nel settore sottostante di questo parco cittadino nel cuore del quartiere di Riesbach che costeggia la Mühlebachstrasse, quando passa una signora in carrozzella trainata da tre levrieri russi, non saprei.