Si vede quasi subito, dal lago, dopo sette minuti e qualcosa dall’inizio. La stanza del vescovo (1977): tratto dal romanzo omonimo di Piero Chiara, regia di Dino Risi, con Ugo Tognazzi in stato di grazia, Ornella Muti mozzafiato, un promettente Patrick Dewaere suicidatosi nel 1982. «Ecco, lo vede quel gazebo laggiù? Quello è il mio pensatoio» dice Temistocle Mario Orimbelli, a bordo della Tinca, al giovane Maffei: playboy perdigiorno di Luino in giro per il lago con la sua barca a vela, appena invitato a cena a casa dell’eccentrico avvocato interpretato da Tognazzi. «Per l’esattezza me l’ha portata in dote mia moglie, infatti la villa si chiama Cleofe, come mia moglie, Villa Cleofe» precisa poi confessandogli che il nome Cleofe gli fa schifo. Da queste prime inquadrature in barca alle ultime in terrazza, passando per le sue stanze tra le quali quella del vescovo, dalla quale prende il titolo questa storia che inizia nel tardo pomeriggio di un giorno d’estate del 1946, Villa Cleofe è protagonista; non solo location in faccia all’Isola Bella.
Localizzata a Oggebbio nel libro di Chiara, per le riprese la prescelta è Villa Castelli a Stresa. Dove arrivo una tarda domenica mattina ai primi di giugno. «Alla crema sono finite» mi dice la signora Anna con un vassoio in mano di «stelline di sfoglia alla crema, ancora tiepide». Sono sceso alla stazione con in mente una missione, oltre a quella di cercare la casa abbandonata del film visto stanotte. Cappuccino e brioche alla crema al Gigi bar. «Le provi»; alla terza le dico di portarle via. Sorseggiando il cappuccino servito in tazza floreale dal barista in giacca bianca, un signore approdato al bancone sostiene che Villa Castelli, a fine anni ottanta, era un covo di pokeristi. Una stanza al secondo piano, dove si riunivano i più strani giocatori nei paraggi, era nota come «La stanza del poker».
Sul lungolago non passa inosservato il Grand Hotel des Iles Borromées né le Borromee laggiù, dove quasi tutti oggi sono diretti. Dopo il Bristol, m’infilo in via Gilberto Borromeo. Caldo umido, i giardini delle ville d’epoca abbandonate qui sono giungle. Villa Cleofe non è l’unica, diverse s’intravedono, nascoste tra la vegetazione fuori controllo. Trovo la balaustra di granito in riva al Verbano, proprio alle spalle della prua terrazzata dell’Isola Bella. Decapitati gli orpelli, sopra, apparsi nel film. Già allora dignitosamente decadente con la facciata color prugna scrostata, nel frattempo sembra caduta in rovina. E se l’hanno tirata giù? Sarebbe un mezzo dramma e un minireportage-buco nell’acqua. Mi volto ma niente, qualche passo in più ma la vista è coperta dal verde cresciuto a dismisura forse anche grazie alle ricorrenti piogge. Odore forte del falso gelsomino che riveste tutta la rete metallica. Eccola, si è aperto uno squarcio nella giungla: una finestra sventrata come un urlo in mezzo alla vite vergine del Giappone. Nota anche come vite canadese, la Parthenocissus tricuspidata ha preso possesso di tutta la casa, già requisita dalla Wehrmacht nel 1944.
«La mia pazzia del venticinque» come la chiamava Ariberto Castelli, l’ingegnere milanese che l’ha fatta costruire nel 1925. Invano cerco la scalinata scesa dall’ombrosa Matilde vestita a lutto con décolleté interpretata dalla giovanissima Muti che a fare il muso non teme rivali. Il gazebo-pensatoio di Tognazzi è sparito. M’immagino un collezionista megalomane di cimeli cinematografici che ha ordito un furto in elicottero. La aggiro risalendo un riale estinto, ricoperto dall’uva turca che affianca il chiosco dei biglietti per le isole. Un ponticello sfocia in via Torino dove la vista si apre sul retro di villa Cleofe a Stresa (203 m). Orti curati stupiscono, un frutteto, il tetto è crollato. Il filo spinato lungo via Torino toglie ogni possibilità di saltar dentro, ma anche senza, molti i dubbi a esplorare quel lugubre relitto pericolante. Il mio cimelio lo catturo con gli occhi da qui: riconosco il vecchio cedro il cui ramo spezzato, verso il finale, quando s’indaga sulla morte della moglie annegata nella darsena, ulula nel vento notturno come una iena. Il cancello tutto arrugginito è degno di nota. Villa Castelli c’è scritto su una targhetta sbeccata in granito rosa di Baveno.
Un pezzo di giardino è quasi un vivaio di garofani tristi. Una volta qui non c’era nessuna villa ma era il roseto delle Terme arsenicali di Stresa. L’acqua veniva da Vanzone, in Valle Anzasca, dove sgorga dalla miniera aurifera dei Cani. Il cuore di tutto era il Kursaal esadecagonale. Sparito tutto, morti tutti, tranne Ornella Muti. Di colpo mi travolge, attorcigliato non lontano, il profumo del caprifoglio. Finché rimane in piedi Villa Cleofe, nel punto forse più ammirato del Lago Maggiore, al paesaggio resta ancorata la magia del cinema. «Appena si accorge che c’è la maionese torna» dice acida la moglie Cleofe a proposito del marito Temistocle, alzatosi da tavola dopo una sfuriata perché reduce dall’Abissinia con dieci anni di ritardo. La scena della maionese svolta lì dentro diventa poi immortale, quando Tognazzi se ne serve tutto serio, compunto, una montagna.