«Vieni, amore mio!»

/ 18.10.2021
di Bruno Gambarotta

«Vieni amore, non farmi aspettare!». L’invocazione mi arriva nitida da una signora che ho appena incrociato camminando sul marciapiede buio e deserto di un corso di Torino, in un tratto di soli palazzi d’abitazione. Non ho visto com’è la titolare della voce che mi chiamava «amore» perché, come fanno i vecchi, camminando tengo lo sguardo abbassato per non inciampare nelle sconnessure dei lastroni. Nel mio curriculum manca ancora la voce «rottura del femore» e vorrei che questa assenza perdurasse nel tempo; se inciampo, cado e mi faccio male il Comune mi fa causa per «oltraggio alle pietre di Perdasdefogu». Le ha fatte collocare Vittorio Amedeo II di Savoia nel 1714 per celebrare l’annessione della Sardegna e il conseguente titolo di re. Per non essere costretto a rimuoverle il Comune le ha fatte dichiarare monumento nazionale.

Torniamo alla voce avvolta nel mistero. Cosa faccio? Vado avanti facendo finta di non aver sentito quella invocazione angelica, oppure mi fermo, torno indietro e affronto quella sirena tentatrice? Le cronache sono piene di anziani truffati, magari quella voce appartiene a una che vuole abbindolarmi per farsi sposare, mettermi all’ingrasso con cibi squisiti ma indigesti (bolliti misti, porchetta, peperonate, fritti), farmi morire d’indigestione e incassare la pensione di reversibilità. È vero che sono felicemente sposato da cinquantacinque anni ma lei non può saperlo, magari usa la tecnica di pescare nel mucchio, Torino è piena di pensionati vedovi. Adesso che ci penso: sono stati cinquantacinque anni di minestroni di verdure «che fanno tanto bene alla salute». Da scapolo ero socio onorario della «confraternita del bollito misto» ma dopo il matrimonio mi hanno radiato per «inosservanza dei doveri statutari».

Torniamo alla voce. E se giungesse da un lontanissimo passato? Da un tempo fra la prima e la seconda guerra punica? Se fosse una mia ex compagna di classe? Ne ricordo tre che per me erano tanto belle quanto inarrivabili, quando abbiamo dato la maturità nel 1956. Di Lucia sono stato innamorato perso per cinque anni. Le passavo i compiti di matematica e lei, un bel giorno, mi ha invitato a una festa in casa sua. Durante il casqué di un tango, per l’emozione l’ho lasciata cadere, per fortuna è finita su un tavolinetto basso. I sei bicchieri di cristallo di Boemia, gli ultimi esemplari di un lascito del bisnonno, sono andati in frantumi. La mamma di Lucia ha detto «non fa niente, erano vecchi» ma aveva gli occhi lucidi. A scuola si è sparsa la voce e non sono mai più stato invitato alle feste. Ma ho continuato a passare i compiti a Lucia.

Torniamo alla voce. Ha detto «non farmi aspettare». Nel caso fosse una mia compagna di classe sarei io quello che aspetta, e da sessantacinque anni. Non quadra. La titolare della voce potrebbe avermi scambiato per qualcun altro, sarà una di quelle signore che pensano «gli occhiali da vista mi invecchiano» e preferiscono andare in giro cieche come una talpa. Ma con chi potrebbe avermi scambiato. Una volta mi hanno preso per Piero Chiambretti, ma non era una signora, era un primario napoletano. Un luminare di Torino mi aveva chiesto di moderare un convegno sull’uso dei robot nelle sale chirurgiche. Cercavano un estraneo all’ambiente, in grado di togliere la parola agli oratori dopo venti minuti, nessuno di loro poteva permettersi di farlo scatenando vendette (stavo per scrivere «sanguinose» ma trattandosi di maghi del bisturi mi sono trattenuto). Ho accettato con entusiasmo la proposta, essere amico di un grande chirurgo fa sempre comodo, tocchiamo ferro ma non si sa mai.

Grazie anche alla mia bravura nel togliere la parola, il convegno è terminato all’ora prevista e l’amico chirurgo mi ha invitato a casa sua per prendere parte alla cena con gli illustri relatori. Mi sono trovato seduto accanto al numero uno della chirurgia napoletana. Da vero gentiluomo sentiva il dovere di fare conversazione ma non sapeva su quali argomenti, non potevamo parlare dell’ultimo modello di strumento per segare le ossa. Dopo un lungo silenzio mi ha detto: «Sa, oggi sono andato a mangiare nel suo ristorante». Non poteva trattarsi di me, non possiedo neanche una modesta piadineria. A Torino Piero Chiambretti è socio nella proprietà di cinque ristoranti. Sicuramente il mio vicino di tavola aveva pranzato in uno di quelli. Cosa faccio, gli dico la verità, che non sono Piero ma Bruno? Per guastargli l’umore per tutto il resto della cena? Gli ho domandato: «Si è trovato bene?». «Ottimamente, però l’ho trovato un po’ caro». Per stare al gioco ho replicato: «Sapesse quante spese abbiamo!».

Ma tornando per l’ultima volta al richiamo di quella sera, dopo aver soppesato i pro e i contro ho deciso di lanciarmi, di tentare l’avventura: «Scusi, dice a me?», ho domandato alla signora. Si è messa a ridere: «Mi rivolgevo alla mia cagnetta». Me l’ha indicata, una specie di botticella obesa di pelo scuro caracollava verso di noi. «Ma davvero pensa che qualcuno possa chiamarla “amore mio”»?