Nel mio precedente intervento scrivevo di alcune visioni del progresso che sembrano perdere di vista l’essenza stessa di questa idea, un’idea che sta al cuore della cultura illuminista e degli ideali della modernità. Un’idea, insomma, che ha alimentato il progetto di un’umanità in cammino verso forme migliori di convivenza.
Perdere di vista l’essenza del progresso significa accettare che la progettualità umana venga identificata solo con il potenziamento tecnologico, con il suo progetto autoreferenziale in cui il potenziamento si legittima e si valorizza da solo, come una pura finalità. Come dire: evviva lo sviluppo tecnologico in vista di un’ulteriore possibilità di sviluppo tecnologico.
Questo potenziamento ci sta apparecchiando nuove forme di esistenza ibrida, in cui l’umano si trasforma in transumano: i cosiddetti cyborg, corpi «meticci», metà organismo biologico e metà artefatto tecnologico. Nel già citato libro sulle derive dell’umano, Marco Revelli parla di un corpo «aperto e mutante, espressione di una tecnologia incarnata, (un soma ormai indistinguibile dalla techné)».
La nostra personale esperienza della vita, i pensieri, le parole, i gesti quotidiani, appaiono tuttavia molto distanti da questo orizzonte: l’idea di un uomo cyborg, super potenziato, non sembra suscitare emozioni quanto lo sbocciare dei fiori autunnali, il colore cangiante delle foglie o la pioggia di ricci e castagne che si offre a noi in questi giorni.
L’esempio, tra il naturalistico e il bucolico, non è per nulla casuale. Vuole suggerire che sullo sfondo di queste atmosfere supertecnologiche rimane vivida e ricca di senso un’altra visione dell’umano e del suo rapporto con la natura.
Come ben sappiamo, nel pensiero moderno la natura è stata pensata come un oggetto da conoscere e in seguito come una risorsa da sfruttare. Il nostro mondo interiore sembra però mantenersi sempre in contatto con l’antica percezione di una natura madre, di una madre-natura a cui sentiamo di appartenere. È come se vivessimo una duplice esperienza etica: quella della condivisione di un patrimonio comune di valori e quella originaria e personale del valore intrinseco alla vita in tutte le sue manifestazioni.
L’etica condivisa, il sistema di valori con cui la nostra società legittima sé stessa, orienta anche il nostro pensiero della natura, ci invita a percepirla come altra rispetto a noi, come un mondo, per così dire, «esterno», con cui stabilire rapporti, non necessariamente competitivi e aggressivi, ma come un mondo comunque altro rispetto alla specificità di noi umani. Poi però ci sono le emozioni che attraversano il nostro vissuto, emozioni e sentimenti di cui si nutre il pensiero, anche se spesso ce ne dimentichiamo o non vogliamo riconoscerlo.
Succede così che l’esperienza della natura, come realtà generativa e materna di cui ci sentiamo parte, sopravviva, nonostante le gabbie culturali, come la voce più intima dell’etica, quella che nasce nella nostra dimora interiore, nel contatto con noi stessi. Quella voce contiene sempre una forza trasformativa e può dunque rivelarsi come punto di resistenza verso i mutamenti dell’umano prospettati dalla tecnologia.
Quella voce può suggerire il bisogno di abbandonare il centro della scena, può suonare come un invito a superare quell’antropocentrismo con cui ci siamo da tempo chiamati fuori dalla natura e che provoca problemi e anche disastri, non solo per l’ecologia ma pure per la nostra esperienza della vita e dei suoi valori.
Forza trasformativa dunque, anche perché questo invito a superare l’antropocentrismo è già presente in forme di conoscenza che si annunciano sullo sfondo dello spirito del tempo.
Vale la pena ricordare, in questo contesto, che gli studi di etologia ci raccontano dell’intelligenza degli animali e anche della capacità, in alcune specie, di distinguere giusto e sbagliato nella scelta dei loro comportamenti.
La neurobiologia vegetale ci racconta dell’intelligenza delle piante, di un cervello diffuso nelle radici e della loro migliore capacità di adattamento rispetto a noi perché prive di movimento.
Anche dal cielo arrivano segni di una comune appartenenza alla natura. Quando una stella muore frammenti di materia potrebbero essere all’origine di altri pianeti.
In controtendenza rispetto al trans-umanesimo di cyborg prossimi venturi, abbiamo tra le mani la possibilità di rimettere in movimento il progresso come miglioramento del nostro abitare il mondo, consapevoli di una comune appartenenza al cosmo.
Abbiamo la possibilità di andare oltre l’umanesimo classico con una visione più aperta: un post-umanesimo in cui accogliere tutto il vivente dentro quell’«umano» che pensavamo appartenesse solo a noi.