Verso la fine del benessere elvetico

/ 23.05.2022
di Orazio Martinetti

L’unica disfida pre-elettorale tra Macron e Le Pen ha preso le mosse dalla diminuzione del potere d’acquisto dei francesi. Questione non nuova, ma che negli ultimi tempi ha assunto dimensioni angoscianti. La guerra in corso in Ucraina fa presagire il peggio: se entro breve non si dovesse arrivare a un cessate il fuoco (la pace è altra cosa), il «granaio d’Europa» chiuderà le porte, per riaprirle chissà quando. Già ora, con gli impianti portuali sotto assedio, l’esportazione è quasi cessata. Alla devastazione delle campagne ha contribuito anche la siccità. La crescita di mais, frumento, orzo e colza è largamente compromessa. Le conseguenze saranno disastrose, soprattutto nei paesi in cui la dieta quotidiana è fondata sul consumo di cereali panificabili. Ma le ripercussioni non risparmieranno nemmeno le più ricche economie occidentali. La curva del rincaro sta salendo di giorno in giorno, e riguarda ormai un paniere che comprende, oltre agli alimentari, il carburante e l’olio da riscaldamento, innescando un generale effetto-cascata sui bilanci delle famiglie. Discorso analogo per le materie prime e per i fertilizzanti.

I prossimi mesi saranno decisivi per capire quale strada imboccherà la vicenda, se quella di un graduale rasserenamento tra le parti, pur nel quadro di un conflitto a bassa intensità, oppure quella di una recrudescenza insensata. In questa seconda eventualità, il prossimo inverno sarà glaciale, sia sul fronte dei prezzi, sia sul fronte dell’approvvigionamento delle materie suddette.

Finora l’economia elvetica, considerata nel suo complesso, ha retto. Anzi, il paese è riuscito a superare le fasi critiche senza macerare in lunghe depressioni. La conclusione del trentennio glorioso (1946-1973) produsse alcune domeniche senz’auto, ma non intaccò l’apparato industriale e il sistema creditizio della Confederazione. Anche le successive crisi e mini-recessioni non provocarono strappi irreparabili nel tessuto produttivo; anzi, in taluni settori – orologi, farmaci, meccanica di precisione – provvidero a stimolare sia la ricerca che l’innovazione del prodotto. Nemmeno gli scenari negativi più foschi, come quello paventato dopo il rifiuto di aderire allo Spazio economico europeo nel 1992, corrosero lo zoccolo della prosperità nazionale. Certo, qualche cantone rimase indietro, ma comunque senza mai fuoriuscire dall’orbita nazionale. Quella traiettoria che il sociologo anglo-tedesco Ralf Dahrendorf, nel suo volume Quadrare il cerchio (1995), aveva racchiuso nella formula «benessere economico, coesione sociale e libertà politica». Una formula, riferita ai paesi dell’universo Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), basata sulla tendenza alla piena occupazione, contrasto alla «nuova povertà» e soprattutto estensione della previdenza sociale, in poche parole dello «Stato sociale» o «Welfare State».

Ebbene, questa economia del benessere, fondata sulla minimizzazione dei guasti generati dal sistema capitalistico, rischia ora di andare in frantumi. I segnali sono allarmanti, anche nel nostro paese. Per molte persone si sta profilando un veloce scivolamento lungo un insaponato piano inclinato. I nuovi rincari vanno infatti ad aggiungersi a una vecchia piaga divoratrice di reddito: alludiamo all’assicurazione malattia, il cui ennesimo aumento – previsto del 5-10% – colpirà anche le famiglie che finora erano rimaste sopra la linea di galleggiamento. È dunque molto probabile che si vada verso la fine del «Wohlstand» elvetico, quel modello di modesta agiatezza che dal secondo dopoguerra in avanti ha permesso di allargare la fascia che va sotto il nome di «ceto medio», la «pancia» della società. Uno strato abitato dalla maggioranza della popolazione che se la guerra dovesse proseguire rischia di sfarinarsi, di non più auto-sostentarsi senza l’ausilio di sussidi e quindi di precipitare nei segmenti bassi della piramide sociale. La politica dovrà prima o poi decidersi a intervenire per limitare i danni e per affrontare seriamente il tema delle disuguaglianze crescenti.