«I confini contano», sostiene Frank Furedi, sociologo inglese, nel suo ultimo saggio il cui sottotitolo recita: «perché l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare frontiere». Contano, come no, i confini; anzi, sembra proprio che negli ultimi anni si siano estesi e moltiplicati come fossero teste dell’Idra. Anziché sparire, come promettevano i trattati internazionali, sono risorti sia come barriere fisiche (muri, cancelli, reti, sbarre, guardie), sia come ostacolo amministrativo (visti, passaporti, formulari di ogni tipo e lunghezza). A questo inasprimento ha contribuito in modo determinante la pandemia, interrompendo di fatto la corsa alla completa libertà di circolazione delle persone (perlomeno nell’area Schengen). Il virus ha insomma sospeso la tendenza alla semplificazione, se non proprio all’annullamento di ogni impedimento alla mobilità. Un contraccolpo che ha riportato in auge i tradizionali steccati, sull’onda di un diffuso appello alla sicurezza (per frenare il contagio, ma anche per arrestare flussi considerati pericolosi, come quelli riguardanti i profughi e gli stranieri in generale). Può darsi che il ritorno all’agognata «normalità» sciolga le catene imposte dalle restrizioni introdotte dai governi in regime di Covid-19. Ma intanto la politica ha potuto mettere in campo provvedimenti e dispositivi che l’Unione europea, passo dopo passo, intendeva affidare agli archivi.
I confini contano perché esistono i territori, con il loro bagaglio ereditato dal passato, materiale e immateriale. Ogni territorio è solcato da linee di demarcazione, una trama che è frutto della morfologia ma soprattutto dell’evoluzione storica, dei rapporti di forza, di conquiste e cessioni, di guerre e negoziati. Spesso solo risalendo addietro nei secoli è possibile comprendere lo snodarsi di determinate linee, a prima vista bizzarre o casuali. Il caso ticinese si presta bene allo studio e all’esemplificazione, giacché ha determinato le sorti di questo triangolo incuneato in Lombardia fin dal basso Medioevo, prima come baliaggio (strappato dalla Lega confederata al Ducato di Milano) e poi come cantone autonomo, «repubblica e Stato». I dazi doganali, che l’amministrazione cantonale avrebbe voluto trattenere per sé, furono all’origine del rifiuto delle prime due Costituzioni federali dell’Ottocento, quella del 1848 e quella del 1874; seguirono poi altre dispute, di natura economica principalmente (la controversia delle soprattasse ferroviarie si protrassero per decenni), ma anche d’ordine politico (libertà di domicilio) e cultural-linguistico (il temuto «intedescamento» della regione, soprattutto delle sponde lacustri). Piero Bianconi confessava che scendendo verso sud, nel Sottoceneri, con lo sguardo alle colline che digradavano dolcemente verso la val Padana, la matassa s’ingarbugliava: «A sud del lago [Ceresio] il Mendrisiotto, che si direbbe appeso al Ticino dall’esile filo del ponte-diga di Melide, presenta una idrografia minima come volume ma complicatissima, manda la sua poca acqua in parte al Ceresio, in parte al lago di Como, in parte all’Olona…».
Frastagliati, serpeggianti, aperti o ermetici, luce di speranza per chi fugge dalla miseria, varchi per merci e capitali d’incerta provenienza, i confini continuano insomma a segnare il destino delle comunità che abitano di qua e di là: vicende e peripezie ben illustrate da due esposizioni attualmente in corso, la prima al Museo doganale di Gandria (Un confine tra povertà e persecuzioni, vedi articolo a pagina 7), la seconda al Museo etnografico della Valle di Muggio (Pezzi di frontiera. Geografie e immaginario del confine). Occorre poi aggiungere i confini mentali, introiettati e sedimentati nel tempo dalle esperienze personali, positive o negative, intrise di pregiudizi ideologici e religiosi, oppure di animosità gonfiate ad arte. In quest’operazione lo schieramento di centro-destra (Lega-Udc) ha saputo ricavare insperati successi elettorali, sottolineando solo le ripercussioni negative dell’afflusso dei frontalieri (mai così numerosi nella storia del Ticino).
In realtà, come la radiografia dei settori d’attività rivela, senza questo apporto l’economia cantonale franerebbe: si pensi all’edilizia, alla pavimentazione delle strade, alla ristorazione, agli ospedali e alle case per anziani, al lavoro di cura, assistenza e pulizia. Volutamente la propaganda distorce il quadro, riproponendo il tradizionale schema «ticinesi-stranieri». Sappiamo invece che legami parentali e affettivi, matrimoni misti, doppie cittadinanze rendono vana ogni categorizzazione fondata su una presunta «purezza» del sangue. I confini contano, ma non srotoliamoci attorno il filo spinato. Non trasformiamoli in confinamento per chi li abita.
Vecchi e nuovi confini
/ 19.07.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti