Vacanze: la trappola dei souvenir

/ 09.10.2017
di Luciana Caglio

Chi non ci è cascato almeno una volta? Chi, poi, ne è uscito? Chi , invece, vi è rimasto incastrato? Ci invita a una sorta di esame di coscienza «Dove», il periodico viaggi del «Corriere della Sera» che, nel suo ultimo numero, si occupa di un contagioso effetto collaterale del fenomeno turistico, quello appunto dei souvenir, categoria di oggetti discussi e discutibili. Ci giunge opportunamente, in ottobre, a ferie concluse, quando dall’esperienza diretta della vacanza si passa alla rievocazione. Che avviene in tanti modi: attraverso incontri con ex-compagni di viaggio, attraverso filmati, foto, libri, conferenze di archeologi, storici, reporter, e via dicendo. Ma in quest’operazione di recupero, una parte ce l’hanno pure loro, i souvenir, parola ormai da scrivere senza virgolette. Nell’accezione italiana, ufficializzata dai dizionari, definisce inconfondibilmente cose, per lo più di poco prezzo, banali, superflue, che però appartengono al nostro ambiente quotidiano. Destinate a svolgere la funzione di testimoni, e quindi ad assumere un significato dimostrativo e sentimentale, che supera lo scarso valore materiale. Tanto da riscattarle dalla bruttezza, dal ridicolo, dalla volgarità, o no?

Interrogativo scontato. I souvenir, e non da oggi, sono sempre sotto processo. Lo conferma il recente servizio, apparso su «Dove», in cui si denuncia una deriva consumistica che ci vede parte in causa, come responsabili oltretutto incoerenti. Cittadini di paesi evoluti, abituati alla buona qualità e al buon gusto, ci concediamo, da turisti, un cedimento. E ci portiamo a casa la variegata paccottiglia «made in China», e affini, che, alle nostre latitudini rappresenta un conclamato simbolo del kitsch. Esposto, non di rado, al rischio del trash. Per intenderci, un conto è la gondola, il Colosseo, il Big Ben, un altro i mostruosi teschi colorati, venduti a Città del Messico, e, peggio ancora, la Tour Eiffel in versione allusivamente fallica. 

A questo punto, citando la parola kitsch, si tocca il tema ambiguo del confine che corre fra oggetti, ufficialmente tacciati di cattivo gusto, e opere d’arte, proposte nelle gallerie che contano. Qui si deve ricorrere a Gillo Dorfles: «Non pochi artisti contemporanei creano più o meno intenzionalmente opere con elementi che fanno riferimento alla cultura kitsch». Si assiste, insomma, a continui scambi fra i due ambiti: ne fu precursore, nel 1917, Marcel Duchamp, con lo storico intervento sulla Gioconda, munita di baffi e barba. Uno sberleffo rivoluzionario o semplice cattivo gusto? 

In proposito, Orio Galli, grafico rigoroso, premette: «Cattivo o buon gusto è una questione soggettiva, ancor prima che estetica, di natura, o predisposizione, intellettuale e filosofica. Emblematico, l’aforisma di Duchamp: “È lo spettatore a fare il quadro”, lui che lo trasforma in oggetto di desiderio. Come nel caso del souvenir dozzinale, in vendita sulle bancarelle di Lourdes». E, con ciò, il nostro interlocutore conferma proprio il singolare rapporto che s’instaura con il souvenir, anzi i souvenir, dato che uno tira l’altro, e ne nasce una collezione. Si tratta di pezzi modesti ai quali il proprietario attribuisce un plusvalore. E qui mi trovo, personalmente coinvolta: sul tavolo del mio soggiorno, la statuetta della regina inglese, vestita di rosa, che, illuminata dal sole o dalla lampada, fa ciao con la manina, mi sembra sprizzare una garbata ironia. Mentre, il discorso cambia, a proposito delle teste di Lenin e Stalin, trasformate in candele, e comprate a Praga, dopo la caduta del muro.

Certo, il plusvalore sentimentale non influisce sull’aspetto materiale dei souvenir, che continuano a meritare l’etichetta kitsch. Da segnalare, però, l’eccezione svizzera. L’Ufficio nazionale del turismo si è impegnato per rinnovare, nel design e nei materiali, gli oggetti che interpretano il nostro folclore. Esemplare, in proposito, la mucca, in legno, dipinta a mano. Costosa ma pregevole.