Disinteresse, indifferenza, oppure brama di controllo: nei confronti dell’Università della Svizzera italiana (Usi), gli umori oscillano come un giunco al vento. Non sempre si riescono a trovare le parole giuste, ad instaurare con la controparte relazioni distese e non inquinate da pregiudizi. Le tensioni tra la politica e l’accademia emergono regolarmente. La prima vorrebbe dettare le regole, fissare i paletti e in qualche modo intromettersi (nella gestione, quando non addirittura nei piani di studio o nella scelta dei professori); la seconda tende a giudicare simili propositi come un’indebita ingerenza in affari che riguardano solo lei.
È giusto che l’università preservi con le unghie e coi denti la sua autonomia. Guai se dovesse cedere alla «volontà di potenza» dei partiti e delle consorterie che tramano nell’ombra. Ma ugualmente sbagliato è concepirsi come un’isola, estranea agli affanni che tormentano la «polis» in cui è inserita e dalla quale riceve le risorse per funzionare. Ancora una volta bisogna ricorrere ad un vocabolario condiviso e coltivare il reciproco rispetto.
L’Usi, è bene ricordarlo, nacque venticinque anni fa sulle macerie del Centro universitario della Svizzera italiana (Cusi), un istituto post-universitario che la cittadinanza respinse nell’urna a seguito di un referendum (1986). Col senno di poi, possiamo dire che quella bocciatura fu provvidenziale giacché permise, dieci anni dopo, di varare tre facoltà «vere»: architettura, economia, scienze della comunicazione (oggi Comunicazione, cultura e società), primo nucleo intorno al quale si sarebbe poi aggregata la quarta facoltà, quella informatica, e infine la quinta, l’erigenda facoltà in scienze biomediche. Non è stato un percorso facile. Le voci contrarie erano numerose, non perché avverse per principio al progetto ma perché ancora prigioniere del complesso dell’ex suddito: sarebbe stata capace, questa piccola regione italofona, di reggere il confronto con le più blasonate sedi d’oltralpe? Dove reclutare gli insegnanti e con quali allettamenti retributivi? Da quale tronco trarre la necessaria linfa finanziaria per mettere in moto l’intera macchina? Chi visse quella stagione ricorda i dubbi e i timori che accompagnarono la genesi delle prime tre «molecole», in un periodo, per le casse cantonali, di sofferenza economica.
In questi cinque lustri, l’Usi ha saputo crescere, allargarsi, creare istituti, inglobare centri di competenza e osservatori, immaginare sviluppi nel campo della ricerca scientifica e medica; più nessuno mette in discussione la sua ragion d’essere e la sua capacità di integrarsi nel paesaggio universitario elvetico. Eppure… eppure l’attuale rettore, Boas Erez, ha ritenuto utile precisare alcuni «fondamentali» sulle pagine del CdT del 23 dicembre scorso, proprio alla vigilia di Natale: un piccolo esercizio mnemonico sul posto che l’Usi ha saputo ritagliarsi sul filo degli anni nella società ticinese, sulle sue ramificazioni nel territorio, sulle sfide che l’attendono nell’immediato futuro. Tesi poi ribadite nella trasmissione «Moby Dick» di Rete Due (edizione dell’8 febbraio, riascoltabile sul Podcast).
Il nodo da affrontare è sempre lo stesso: l’assenza, nel paese, di una «mentalità universitaria». C’è una parte, piccola, che segue e apprezza le iniziative che l’Usi propone da un semestre all’altro; ma c’è anche una larga parte dell’opinione pubblica che continua a considerarla un meteorite, o perché ancora indecifrabile, o perché ritenuta una «colonia» del sistema universitario italiano: un’appendice lombarda frequentata da docenti e studenti provenienti dalla penisola.
In passato si è cercato in tutti i modi di abbattere queste pareti divisorie. Purtroppo le diffidenze, per non dire le ostilità, sono rimaste. Questo non impedisce di riproporre a scadenze regolari appuntamenti come le giornate delle porte aperte, per rammentare che un ateneo non è un faro su uno sperone roccioso, una fortezza inaccessibile ai comuni mortali, ma una palestra in cui si danno convegno conoscenze, esperienze, costruzione di scenari. Non una presenza aliena dunque, ma un organismo vitale, irrorato dai vasi sanguigni dei saperi. Semmai varrà la pena di verificare se i talenti locali, una volta concluso l’iter formativo, qui o altrove, ottengano o meno la possibilità di proseguire il loro percorso all’Usi. Questo non in un’ottica di «quote» (posti da riservare agli «autoctoni», come se la Svizzera italiana fosse una riserva indiana), ma di opportunità di collaborazione e di crescita comune. In una formula: attrarre i cervelli esteri, promuovere i cervelli interni, metterli insieme per incrementare il bagaglio di entrambi.