USA, ritorno al ruolo guida

/ 30.11.2020
di Peter Schiesser

America is back. Dopo gli anni di isolazionismo trumpiano, gli Stati Uniti tornano sul palcoscenico mondiale, con l’intenzione di essere di nuovo la potenza guida del mondo. «L’America guida non solo con l’esempio del suo potere, ma con il potere del suo esempio»: Joe Biden ha presentato così martedì scorso la sua nuova squadra per la politica internazionale e la sicurezza nazionale, riecheggiando le parole che scrisse in primavera in un articolo per la rivista di geopolitica «Foreign Affairs», in cui riassunse la sua visione e le sue priorità di politica estera. E per farlo si è attorniato di personaggi di spicco, con una vasta conoscenza della materia ed esperienza sul campo, cresciuti attraverso le amministrazioni Clinton e Obama, alcuni dei quali suoi stretti collaboratori da decenni (vedi anche Peduzzi a pagina 33). Il contrario di quanto avvenuto sotto Trump, dove l’improvvisazione e la precarietà regnavano sovrane, con il presidente che smentiva e licenziava a piacere i suoi ministri. Con Biden si può essere certi che le parole del futuro Segretario di Stato Tony Blinken, del consigliere capo alla sicurezza Jake Sullivan, dell’ambasciatrice all’ONU Linda Thomas-Greenfield, della responsabile dei 16 servizi di intelligence Avril Haines e in particolare del plenipotenziario per il clima John Kerry, saranno le parole del presidente. E viceversa le sue saranno quelle suggerite, discusse, elaborate con la sua squadra. Biden vuole mostrare la coerenza di una politica, dopo che per quattro anni la credibilità internazionale degli Stati Uniti ha subito enormi colpi.

Dopo che Trump ha sistematicamente picconato ogni risultato della politica di Obama, Biden si accinge a ricostruire tutto, pur sottolineando che la sua presidenza non sarà un Obama-3. Promette che la sua politica estera sarà guidata da un fresh thinking, idee e politiche nuove, poiché il mondo in questi quattro anni è cambiato, non si possono affrontare le sfide odierne con idee e abitudini vecchie. Una dichiarazione che è allo stesso tempo un’ammissione degli errori commessi da Biden stesso e dai collaboratori di Obama che oggi incarnano la sua politica estera (l’incapacità di fermare la guerra in Siria, la reazione tardiva alle interferenze russe nelle presidenziali del 2016, l’eccessiva lentezza nel rispondere all’espansionismo aggressivo della Cina, come ha riassunto in un’intervista alla CBS del 20 maggio Tony Blinken).

Ma a contare non è solo la coerenza delle politiche e la compattezza di una squadra competente. Fondamentali sono i cardini di queste politiche. E qui Biden è molto chiaro: bisogna riprendere la lotta per la democrazia, per i diritti umani, contro gli autoritarismi, contro la corruzione. Ma per farlo – è il pensiero di Biden su «Foreign Affairs» – bisogna affrontare le radici di questi mali, far crescere un’economia che favorisca le classi medie (negli USA con massicci investimenti nelle infrastrutture e nell’istruzione, in altri paesi combattendo corruzione, criminalità e povertà). E lo strumento principe nelle relazioni internazionali tornerà ad essere la diplomazia, ciò che significa identificare aree di interesse comune con altri paesi e gestire assieme i punti di conflitto. Alla base dell’intenzione di tornare ad essere la superpotenza guida c’è la fede nel multilateralismo e la volontà di rinsaldare l’ordine mondiale di stampo liberale. Saranno contenti gli alleati storici, compresa l’Europa – molto meno i paesi all’indice per le violazioni dei diritti umani, Cina, Russia, Arabia Saudita, Turchia, Filippine. 

Ma la prima mossa in assoluto sarà sul clima: il primo giorno della presidenza Biden, gli Stati Uniti rientreranno negli accordi di Parigi, con la volontà di assumere un ruolo guida.